Amore a prima vista per La rivolta di hopfrog e altre storie (che poi è solo un’altra storia), fumettissimo firmato da David B. e Christophe Blain e pubblicato da Oblomov. Un super combo di autori che si mette alla prova con l’epica del west, l’avventura pura e il citazionismo sfrenato. Il risultato è una gioia per gli occhi e uno sballo di storia che mischia un sacco di cose del settore avventura-orrore, ma lo fa con eleganza e classe, santo cielo, senza menare il can per l’aia. I due protagonisti dell’albo sono Hiram Lowatt, l’intellettuale yankee che alterna alla stilografica il fucile; e Placido il saggio, silenzioso capo-tribù che parla (molto) poco e pesta (molto) duro. Nella prima storia ci sono gli indiani, l’eco di Edgar Allan Poe e la tristissima, ferocissima storia della rivolta degli oggetti. Nella seconda storia, Hiram e Placido vanno in Alaska perché invitati a una conferenza e sprofondano in un altro incubo, stavolta a base di cannibalismo e cupa follia. In tutte e due le storie ci sono gli indiani, e sono fighissimi. In tutte e due le storie c ‘è un sacco di azione, una sceneggiatura che non perde mai di vista quello che sta narrando e disegni favolosi. L’unica nota negativa, come già è stato scritto su qualche altra rivista, è che i due autori non sono più tornati sui personaggi, purtroppo, e non sono uscite altre storie. Basta così, adesso, altrimenti non mi crederete più. Ma anche se avete deciso di non credermi più, fatelo un’ultima volta e leggete questo super fumetto.
Tag:
Fumetti
Raramente capita di leggere un fumetto così. Pistouvi di Merwan Chaban e Bertrand Gatignol, pubblicato da Tunué, è un graphic novel diviso per quadri onirico-bucolici, piccole unità narrative che si giustappongono aggiungendo ognuna un pezzo del puzzle e che ho letto con inconsueto gasamento fino alla fine. Mi sbilancio? Ebbene sì, mi sbilancio, conteniamo moltitudini di fumetti, ma quando ci vuole ci vuole. Pistouvi colpisce subito per i meravigliosi disegni in bianco e nero, che non perdono un colpo dalla prima all’ultima pagina e che da soli ne giustificherebbero l’acquisto. Ed è un’opera che va giù impapalpabile ma con un suo sottile quanto irresistibile magnetismo fino alla fine, fino all’ultima pagina e poi chissà, fino a ogni eventuale continuazione gli autori volessero trarne. Leggerlo è stato come fare il bagno in una nuvola, come la cosa più svenevole che vi possa venire in mente, ma senza vergogna o imbarazzo. Come il ricordo dell’infanzia perduta: struggente. E mi riferisco in particolare a chi ha avuto la fortuna di passarla in campagna, la benedetta infanzia, come i protagonisti di questo strepitoso fumetto: Jeanne, una bambina, e Pistouvi, la volpe amica di Jeanne. I nostri vivono nella casetta sull’albero, con loro ci sono la donna del vento, un rude, gigantesco fattore, e gli uccelli, che i due temono. Tutt’intorno a loro la natura, la società degli uomini sembra lontanissima, il mondo è magico. Pistouvi è un’opera avventuroso-allegorico che corre il rischio di non essere né fantasy né pesce proprio a causa dell’eccesso allegorico, ma vince la sfida con decisione e si candida come una delle migliori letture che possiate fare in quesi mesi. Per bambini e bambini cresciuti, Pistouvi è sogno e disegno. L’ennesima prova delle infinite potenzialità espressive delle nuvole disegnate.
Ci sono momenti in cui entrare in una libreria o fumetteria riesce ancora a regalarti quell’emozione lì. Di quando su Corto Maltese c’era Il ritorno del cavaliere oscuro a puntate e correvo in edicola, traboccante di gioia, di aspettative, ignaro di quello che Frank Miler avrebbe detto, scritto e disegnato negli anni a venire. Ma se invecchiare è un’arte difficile e non a tutti gli artisti, musicanti, imbrattacarte e poetastri riesce sempre benissimo, il problema non sembra riguardare sua maestà Grant Morrison, che continua a sfornare roba di gran classe sin dall’inizio degli anni ’80. Ne è prova, tra le tante, questo WE3, uno sciccosissimo volume appena ristampato da RW Lion, scritto dallo stesso Grant Morrison, ovviamente, e disegnato da Frank Quitely. Ma cos’è WE3, vi starete chiedendo, divorati dalla curiosità che vi sta impedendo di farvi un altro tuffazzo nel mare blu? Anzi, chi sono i WE3? Ebbene, sono tre innocui animali domestici, un cane, un gatto e un coniglio, che sono stati rapiti e trasformati in una squadra di assassini cibernetici al soldo del governo o del miglior offerente. Ma le cose non andranno per il verso giusto e se anche a voi l’idea di fornire a un micio un esoscheletro da battaglia che ne amplifica a dismisura le capacità non sembra una genialata, be’… mettetevi comodi e preparatevi allo spettacolo. Semplice e allo stesso tempo profondissimo, disegnato in maniera sublime da un immenso Frank Quitely, WE3 è puro fumetto di intrattenimento, ma anche apologo filosofico e inno animalista. Insomma è un commovente capolavoro. Ecco, l’ho detto.
Siccome in estate i fumetti mi prendono benissimo (come nelle altre stagioni, a dire il vero), oggi parliamo pure di Aiuto!, un albo pubblicato da Bao qualche tempo fa, ma che non essendo una mozzarella non è destinato a scadere, non tanto presto almeno. Aiuto! è uno spiazzante fumetto splatter-pastello, una favola nera ma a colori (!?), che ci racconta la storia semplice e crudele di un manipolo di cacciatori che vogliono vendicarsi di uno scoiattolo e di un cucciolo d’orso. Detta così la faccenda appare grottesca. Vendicarsi di uno scoiattolo, di un orsetto? Uomini grandi e grossi contro esserini indifesi? Non sembra folle, non sembra assurdo, imbarazzante, patetico? Ma quante volte l’animale uomo si distingue per l’uso indiscriminato della violenza contro chi non la pensa alla sua stessa maniera, contro chi non crede nel suo stesso dio o ci crede ma in una maniera leggermente diversa? Quante persone, piante o animali abbiamo spazzato via per fare posto alle autostrade che ci porteranno diritti verso i nostri rist-o-rama preferiti, lì dove potremo ballare la danza del momento agghindati come perfetti imbecilli, magari con una bella pelliccia addosso? A quanti animali sotto le nostre case, nelle strade delle nostre fetide città inadatte a essere percorse da cuccioli e bambini, abbiamo rifiutato le nostre attenzioni perché “così vuole la legge di natura”? Aiuto! è un folle gioiellino a fumetti, una gioia per gli occhi firmata dai giovani, giovanissimi Isaak Friedl (testi e matite) e Yi Yang (coloratissimi colori) in cui gli uomini fanno quello per cui si sono sempre distinti, parlare a vanvera e sparare alla cieca, ma in cui gli animali per una volta non stanno a guardare. Un albo imperdibile per tutti gli amanti delle nuvole disegnate, degli animali e degli animali a fumetti! E in più alla fine del volume trovate pure gli adesivi in omaggio.
Il non so che…
written by Angelo Orlando Meloni
Cominciamo da Ballistic, un fantacientificone tutto ultraviolenza ma anche post cronenberghiano e pure post transmetropolitano e un po’ confusionario e chi più ne ha più ne metta. Pubblicato da BD edizioni, il volume è firmato da Adam Egypt Mortimer (regista dell’horror Some kind of hate, che non ho visto e… boh… forse un dì vedrò) per i testi e Darick Robertson per i disegni. E siccome si dà il caso che Robertson abbia lavorato a due dei fumetti più eccitanti, esagerati e geniali su cui lettori fortunati abbiano potuto adagiare le pupille negli ultimi anni (Transmetropolitan e The boys) be’… un po’ di curiosità viene. Eccome se viene, in special modo se la prefazione (fighissima) è di sua maestà Grant Morrison (e se non conoscete Grant Morrison quasi quasi vi invidio, perché ciò implica che avete una tonnellata di fumetti strabilianti tutta da scoprire). Peccato però che il risultato finale non sia al livello delle eminenze che ho citato fin qui. Tutto molto “wow”, tutto molto fantascientificoso e pure – come dicevamo su – cronenberghiano (in un certo qual modo, non prendetemi alla lettera), tutto molto veloce e pieno di fatti, sparatorie, mutazioni, sofisticazioni, trovate, trovatine e svolazzi, ma…. Transmetropolitan era un’altra storia.
I custodi di slade house è un romanzo orrorifico firmato da David Mitchell (pubblicato in Italia da Frassinelli e tradotto da Katia Bagnoli) che in confronto alla confusione di Ballistic appare sobrio, asciutto, ben stirato. David Mitchell ci racconta la storia di una casa misteriosa e dei suoi insidiosi occupanti, nonché di alcune persone che nel corso di un secolo circa avranno a che fare con questi loschi individui. Eh… sì, sto parlando proprio di quel David Mitchell da cui Lana e Lilly Wachoski hanno tratto qualche tempo fa l’imbarazzante film Cloud Atlas. Lo so che i gusti sono gusti e che probabilmente ci sono milioni di persone a cui la visione di Cloud ha ingenerato gaudio & estasi, però così è la vita, che ci vogliamo fare, quel polpettone senza né capo né coda mi fece rimpiangere di non aver visto al cinema capolavori come Beethoven 1, 2, e 3; Le comiche 1 e 2 e altre simili perle. Ma ormai è andata. Pensiamo al presente, piuttosto. Riuscirà (l’incolpevole?) David Mitchell a scrollarsi di dosso il kolossal meno colossale degli ultimi anni? Be’, sì, ce la fa. Cioè, quasi. Più o meno, insomma, perché I custodi di Slade House è un romanzo tirato a lucido da uno scrittore che sa il fatto suo e che sa giocare con l’horror classico e con noi lettori fino all’ultimo capitolo, fino allo scioglimento della vicenda, lì dove si riaffaccia, purtroppo, quel “non so che” di Cloud Atlas, quella sensazione del tipo: ma che mi stanno pigliando per il…? Alt, però, mi fermo qui e altro non aggiungo. Se volete scoprire di cosa si tratti, allora ve lo dovete leggere, questo romanzo. Da me non avrete altre informazioni, perché I custodi di Slade House tutto sommato regge bene o benissimo fino alle ultime pagine e solo lì, novello Dorando Pietri, fa patatrac.
Last but not least, segnalo infine la ristampa (Panini) del primo volume della serie The Goon di Eric Powell, serie caratterizzata da disegni grandiosi e storie ad alto tasso di adrenalina, genialità e fancazzismo. Fantasia al potere, insomma, ma di dubbia moralità e ubriaca marcia di liquoracci infimi. Una sbronza megagalattica di zombi, delinquenti, delinquenti zombi, maghi, bulli & pupe, locali fumosi, uomini pesce, Babbo Natale (proprio lui) e i suoi elfi cannibali, scazzottate che nemmeno Bud Spencer e Terence Hill… e poi, poi… quei disegni grandiosi (sì, lo ripeto, disegni grandiosi) che qua e là omaggiano Jack Kirby. C’è poco da dire, quest’albetto è una vera chicca e chi se lo lascia sfuggire è destinato a vagare come un morto vivente affamato di cervello fresco nel limbo del succitato “non so che”, e condannato a zampettare in eterno di scaffale in scaffale sempre alla vana ricerca di qualcosa di diverso dalla solita zuppa.
Arriva l’estate, arriva il caldo, arrivano i tuffazzi e si assesta al minimo (cioè zero) la già scarsissima voglia di migliorarmi attraverso la lettura di un autore bello, buono e pulito. Uno di quegli autori, insomma, molto ammirati, ma che violano lo show don’t tell con lo stesso candore con cui i bambini ignorano le leggi della meccanica quantistica. Messe da parte le velleità pedagogiche mi sono perciò votato al fumetto, che d’estate rinfresca la mente. E la mente, si sa, è portata all’ebollizione. Basta un nonnulla, a volte. Ma per fortuna abbiamo inventato i fumetti, mi dico spesso. Per fortuna c’è Leo Ortolani e ci sono le sue recensioni a fumetti, raccolte da Bao publishing con il titolo Cinemah – il buio in sala. Ci sarebbe ben poco da dire su Ortolani (non mi starai dicendo che non hai mai letto Ratman?). E pertanto non aggiungo altro, a parte che le sue recensioni sono esilaranti (attenzione: a quanto pare a Ortolani è piaciuto Prometheus). Tutto il resto ve lo racconterà il loquace drago de Lo hobbit.
Polpette spaziali di Craig Thompson è un bel fantascientificone pubblicato in Italia da Rizzoli Lizard, con cui l’autore è ritornato sul luogo del delitto con l’aiuto dell’asso americano Dave Stewart e dei suoi colori (ha collezionato più Eisner Awards Dave Stewart che palloni d’oro Messi e Cristiano Ronaldo insieme). Anche Craig Thompson, va detto per chi non lo sapesse, è un fuoriclasse. I suoi Blankets e Habibi sono diventati quasi dei classici. Hanno fatto segnare molte tacche ai fumetti “importanti” e a chi suona la relativa tromba. Ma si vede che all’autore doveva esser venuta voglia di raccontare e basta. E con gli spaziali, per giunta, e gli alieni, e queste meravigliose (e voraci) balene interstellari. Ne è venuto fuori un gran bel fumetto che parla di immigrazione stellare, di ricchi contro poveri, d’amore, abbandono e ricongiungimento. E in più ci sono un sacco di mostri, astronavi e robot. Medaglia d’oro al valor fumettoso per Craig Thompson, quindi. Per aver avuto il coraggio e la bravura, in quest’epoca di sapientoni, di realizzare un fumetto del genere. Come quelli di una volta, cioè. Un fumetto per bambini che piacerà un sacco pure ai grandi.
Thomas Ott è un artista dal tratto straordinario con una straordinaria vocazione per l’orrido, l’inquietante, le stramberie. Storie malsane, le sue, letteralmente graffiate sulla carta con una tecnica d’incisione detta in inglese scratchboard. Il mio primo incontro con le sue opere risale a un secolo fa, quando a pubblicarlo in Italia era la Topolin Edizioni (poi sarebbe arrivata la Black Velvet e adesso Logos). Ricordo anche una mostra, dalle mie parti, a vulcano city. L’editore aveva esposto gran parte del suo catalogo, compresi gli albi di Ott. E ricordo pure una comitiva di futuri fuoricorso molto alternativi, che si erano aggirati attorno ai fumetti, annusandoli, finché uno di loro si sentì in dovere di dar prova di coraggio. Sembravano gli ominidi di Kubrick attorno al monolito. Sfidato l’ignoto, l’allocco strinse un albo tra le grinfie e a mo’ di trofeo lo portò via con sé verso l’uscita, subito seguito dal branco, che aveva imitato l’impresa del capo, e dall’editore. Quel mischinazzo fu costretto a fermarli davanti a tutti per farsi ridare i fumetti e ognuno dei testimoni poté avvertire il dong dell’incredibile brutta figura che rimbalzava sulle facce stolide di quei bellimbusti e si andava ad accartocciare per terra, accanto al buon senso. Ma guai a lamentarsi e a sognare mondi migliori, perché i mondi possibili in agguato posso essere più squallidi di quelli che vorremmo migliorare. Non l’ho mai capito se quella sera quei tipi avessero pensato che si trattava di volantini o di cataloghi o di fotocopie o boh. Se essi cioè avessero minimamente capito che lì c’era una mostra e non la sagra della birra o chissà cos’altro. O se ad attirarli fossero state le copertine di cartone, buone per fare i filtri delle canne a base di quell’erba albanese che aveva infestato i cervelli di un’intera generazione.
Le uniche cose certe sono che quei candidi giovincelli erano davvero in buona fede, perché non si erano resi conto di averli rubati, i fumetti, e che ogni qual volta so di un nuovo lavoro firmato da Thomas Ott continuo a ricordare questa storia insignificante e inquietante, come se qualcuno l’avesse graffiata nella mia memoria. Quella sera si era aperto un bivio nello spazio tempo. Fino a un secondo prima vivevo in un universo nel quale i micro-editori di fumetti alternativi se ne andavano in giro per i pub a promuovere le loro pubblicazioni, poi un bonghettaro deve aver dato un colpo fuori tempo di troppo e mi sono trovato nell’anti-universo in cui al posto dei pub c’erano rist-o-rama di design bianchi e i bonghettari si erano trasformati in teorici del liberismo selvaggio. Da allora, però, ogni tanto riaffiorano segni di vita, tracce della persistenza del vecchio universo nel nuovo, la sopravvivenza del culto per l’heavy metal, per esempio, o l’esistenza del film Guardians of Galaxy. Oppure la comparsa, ogni tanto, di un’altra opera di Thomas Ott come questo The number, che racconta il delirio d’una guardia carceraria causato dal ritrovamento di un bigliettino con un numero misterioso. Lo stesso numero che campeggia non solo nella copertina ma in ogni pagina di questo nerissimo fumetto privo di balloons. Tutte le pagine compresa l’ultima, quella che sto guardando adesso mentre penso a una squallida serata di tanti anni fa e a un mondo perduto. E mi sento come se fossi sprofondato dentro il macabro universo di Thomas Ott.
Patience, pubblicata in Italia da Bao publishing (Fantagraphics Books negli USA), è l’ultima opera di Daniel Clowes, autore di fumetti vintage-retro-sci-pop-beatnik-fi-e-chi-più-ne-ha-più-ne-metta ormai omaggiato di un più che meritato culto, di un ossequioso rispetto, di degna attenzione sia da parte dei veraci amanti del comic book tutto muscoli sia dagli efebici estimatori della più raffinata, ineffabile autorialità. Chi lo sa, forse persino quelli che “il fumetto, anzi, il graphic novel cambierà il mondo” si sono fatti un giro per le sue strampalate, psichedelicissime & depressissime pagine. Per le pagine, per esempio, di questa lunga storia di fantascienza e d’amore di cui, prima di aver letto una sola vignetta, mi sono assuppato su di un forum una discussione abbastanza invelenita, di quelle che prendono l’entusiasmo a sberle. Perché poi l’abbia fatto non lo so, ma siccome Daniel Clowes non è mai stato un mattacchione, possiamo dire che prima di spararmi la sua ultima opera un tocco di masochismo ci stava tutto. Patience è la storia di due perdenti e di un amore che rischia di finire malissimo, nonché del tentativo di aggiustare le cose rompendo le barriere del tempo. Detto così non sembra questa gran novità, lo riconosco, ma per quel che vale il mio parere di fronte agli infiniti forum del megaverso a fumetti, devo dire che Patience mi è piaciuto un sacco. Clowes è un pop-raccontatore del mal di vivere, della sfiga e della tristezza. Non è un allegrone, ma è colorato, fantaqualcosa, genialoide. E se solo fossi in vena di usare il bieco trucco detto “metafora della vita”, potrei dire che il tema del viaggio nel tempo qui diventa un pretesto per parlare d’amore. Ma se cominciassimo a ragionare così anche il film Interstellar diventerebbe un pretesto per raccontarci, tra un buco nero e un super robot, che omnia vincit amor. Il che poi non è neanche troppo lontano dalla verità, forse. Ma tant’è…
Ricordo L’antologia di Lloyd LLewellyn, prima (penso) opera di Daniel Clowes, pubblicata in Italia dalla Telemaco Comics nei primi anni novanta. Fu una vera scoperta. Un fumetto esuberante, pieno di creatività “anticata”, retrodatata e futuribile. Ma all’epoca leggevo William Burroughs e quindi era un invito a nozze. Ah, come? Non lo trovate? Non conoscete L’antologia di Lloyd LLewellyn? Io invece sì. Bei tempi, quelli, la Rete in pratica esisteva solo nelle pagine di Neuromante. La chiamavamo cyberspazio e sarebbe diventata asilo di intelligenze artificiali e altre cose del genere. La Rete avrebbe cambiato il mondo. Poi sono arrivati i social e adesso la Rete serve essenzialmente per sacramentare, per protestare, per sfogarsi contro tutto e tutti, anche contro la traduzione italiana di Patience, su cui però non mi sento di esprimere giudizi, specialmente se l’autore ci ha messo del suo. Prendiamo per esempio il passaggio con le considerazioni-contorsioni mentali sul “corpus”. Cosa avrà mai voluto dire? Boh, mistero. Ma sono andato avanti lo stesso, perché la storia e i disegni di questo fumettone acchiappano che è un piacere. Per non parlare del vezzo di troncare vignette e dialoghi qua e là, un espediente che a prima vista mi ha fatto pensare a un errore di stampa, che mi ha fatto gridare al complotto, all’assassinio dell’Arte, all’insulto perpetrato contro la Giustizia e la Bellezza e la Verità. La Rete fa bene a lamentarsi, ho pensato, questo mondo è insopportabile. Poi ho bevuto un bicchiere d’acqua e in meno di dieci secondi mi sono sentito un imbecille, perché quella era una cosa voluta, un effetto, arte. E il tempo ha ripreso a scorrere. La realtà si è aggiustata e il mio sé dal futuro mi ha guardato, si è acceso una cicca, ha sospirato e si è dissolto nel fiume eterno del multiverso. Omnia vincit amor.
Descender – Stelle di Latta di Jeff Lemire e Dustin Nguyen è il primo volume di uno scoppiettante fantascientificone che si preannuncia intriso di sense of wonder come un cornetto alla crema di quelli buoni. Di quelli cioè che quando li mordi esplode e ti sporchi, ma tutto sommato te ne freghi perché la crema è buona. Pubblicato in Italia da Bao (edizione originale americana della Image) e – come ho avuto modo di vedere in rete – a quanto pare già opzionato dal cinema, Descender non delude le aspettative, sia per i testi di Jeff Lemire sia per i disegni di Dustin Nguyen, che con le sue matite si spinge molto più in là di un segno semplicemente funzionale alla storia. Rimpinzato di ascesa & declino di super civiltà tecnologiche, alieni come se piovesse, alieni coatti come se piovesse, splatter q.b., fantarcheologia, robottoni giganti apocalittici, robot-minatori tonti dal cazzotto facile degni di un fantascientificone in stile Bud Spencer e Terence Hill, robottini teneroni e robottini teneroni che nascondono (chi lo sa) grandi segreti, questo primo volume procede dritto fino alla sua conclusione (aperta) e raccoglie i primi sei numeri della serie originale. Stiamo a vedere come proseguirà e se Lemire saprà evitare il trappolone del prescelto o dell’antica profezia, ma se siete amanti della fantascienza più zozzona, avventurosa & ambiziosa, se gli sconfinati mondi dell’immaginazione sono il vostro campo da gioco, be’… penso che un occhio a questa serie, ragazzi, lo dovete proprio dare.
Subito dopo Descender forse avrei dovuto espiare con un romanzone pseudo-realistico e didattico-pedagogico privo di dialoghi che affronta e risolve i grandi problemi che ci attanagliano, ma la pila di fumetti sul comò mi reclamava e ho rimandato ancora una volta il momento in cui un romanzo certificato mi farà diventare un uomo migliore. Noncurante delle conseguenze, mi sono perciò sparato Bitch planet volume uno, di Kelly Sue DeConnick e Valentine De Landro, un’altra serie Image pubblicata in Italia da Bao, che ci proietta in un universo futuribile e anticato allo stesso tempo (vedi alle voci: women in prison ed exploitation), nonché grottesco e bastardissimo, e che non vuole farmi diventare un uomo migliore, anche perché nelle pagine che ho letto di uomini “migliori” non c’è traccia, zero, nemmeno l’ombra. Non-compliant è la parola chiave di questa storia. E sta a indicare le riottose condannate all’oblio spaziale. Donne non compiacenti, quindi. Ostinate, caparbie, dure, poco remissive. Rivoluzionarie, probabilmente. Donne che non si adattano agli standard imposti dai padri e fanno questa brutta fine, poco importa se si sono macchiate di veri reati o se la loro unica colpa agli occhi dei babbioni che amministrano quest’orrendo brave new world è quella di essere oltraggiosamente obese o di alzare gli occhi al cielo di fronte alla coglionaggine del deficiente di turno. Per le donne che non si vogliono adeguare agli standard che i maschi con la cravatta hanno preparato per loro, insomma, la fine è già scritta e le porte della prigione spaziale si sono già chiuse per sempre alle loro spalle, se non ci fosse però il Megaton, lo sport nazionale pesta-duro in cui bisogna saper menare di brutto, da far invidia al buon vecchio rollerball. E siccome la federazione vuole tenere alta l’attenzione dei cerebrolesi che sbavano davanti agli schermi, qualcuno ha deciso che è giunto il momento di una squadra femminile, di una squadra feminile selezionata tra le riottose del bitch planet, ça va sans dire.
E a questo punto non ci resta che metterci comodi sul divano pronti a sbavare davanti ai prossimi numeri.
Sull’orlo del Necronomicon
written by Angelo Orlando Meloni
“Cosa succederebbe se tutte le principali case editrici italiane si trovassero raggruppate sotto un’unica sigla? Se lo è chiesto Antonio Manzini. Il risultato è questa novella satirica. La storia di uno scrittore di grande successo che vede trasformare il suo mondo nel giro di pochi giorni”, così la pagina di Sellerio editore dedicata a questo romanzetto, Sull’orlo del precipizio, scritto da Antonio Manzini e pubblicato pochi mesi fa. C’è questa faccenda, per farla breve: i più grandi gruppi editoriali si sono fusi in un gruppo editoriale ancora più grande (non vi ricorda forse qualcosa?). E poi c’è questo Giorgio Volpe, numinoso scrittore arraffa premi che sta per ultimare il libro della sua vita, una mappazza di ottomila pagine sulla storia della sua famiglia vista in parallelo (così sembra) con la storia d’Italia. Un mattone devastante, direi, ma non nella finzione di Manzini, in cui il succo, stringi stringi, è: “grande scrittore impegnato” più “mappazze indigeribili” uguale “bene supremo”. Una semplificazione che in verità non nuoce troppo alla storia, sebbene complichi l’immedesimazione con il dramma vissuto da un tizio che ha venduto milioni di libri e pur senza fare vita da rock star non sembra avere accumulato il minimo sufficiente per guardare alle umane vicende con un po’ di distacco. Al netto di tutte le osservazioni che un vulcaniano troppo pignolo potrebbe produrre, Sull’orlo del precipizio è però un racconto onesto, animato da alcune scene molto divertenti, che prende spunto da eventi reali per portarci in un mondo che è solo apparentemente più grottesco di quello reale e ci dà modo di misurare lo scarto tra la nostra vita presa nel suo complesso e tutto quello che cerca di trasformarla in un incubo. Insomma: letteratura.
La spirale di delirio liberista-economicista che nel libro si sviluppa pagina dopo pagina, quest’idiotismo efficentista in lingua straniera che sembra animare i personaggi, cos’è se non la trasposizione fedele, ma ambientata in un contesto appena un po’ più vivido e cartoonesco, del delirio efficientista che ci sta scartavetrando la voglia di vivere dai neuroni, giorno dopo giorno, inesorabilmente, a mo’ di tortura cinese? Siamo o non siamo insomma sull’orlo del… Necronomicon? O del Neonomicon, come nel titolo dell’opera di Alan Moore e Jacen Burrows pubblicata da Bao? Direte voi che c’azzecca Alan Moore che fa il verso a H. P. Lovecraft con Antonio Manzini che fa il verso all’editoria italiana? Ve lo dico cosa c’azzecca: niente. Un bel niente degno del grande nulla evocato giorno dopo giorno dalle formule iniziatiche in lingua inglese con le quali ci hanno fatto dire di sì con entusiasmo al saccheggio di quel poco che le classi medie e operaie erano riuscite a mettere da parte nel corso del Novecento. Ma tanto che c’importa? Cthulhu sta arrivando. E se non arriva Cthulhu arriverà al suo posto un grande scrittore convinto che il suo romanzone-saga familiare di diecimila pagine ci permetterà di vibrare all’unisono con il cosmo. Nell’attesa che l’apocalisse si compia, che arrivi l’uno o l’altro, che a porre fine alle nostre sofferenze sia un’imperscrutabile divinità dell’oltrespazio tesa a raggiungere la massimizzazione del profitto o un esercito di artisti zombi che vogliono divorare il nostro cervello violando la regola dello show don’t tell molto più di quanto sia consentito dalla convenzione di Ginevra… be’… nell’attesa di sapere di che morte dovremo morire in questo mondo postmoderno che è la parodia del mondo di cui la mia generazione aveva sentito parlare nei libri di scuola, se essiccheremo per mancanza di grande cultura o se esploderemo per indigestione di grande cultura, se la lettura della satira di Manzini ci ha scosso e non riusciamo a capire come possa averlo fatto un librettino dall’apparenza così innocua, allora, visto che ormai siamo in ballo, potremmo pur sempre impiegare un’altra oretta ripassando i miti lovecraftiani nella versione riveduta, erotica e corretta del maestro dei maestri, il mitico, unico e solo Alan Moore. E solo allora potremo finalmente dire “mo ‘sto bene”.
Se mi chiedessero al volo qual è la prima cosa che mi ha colpito di “Gnam!“, escludendo ovviamente quell’ugola minacciosa in copertina che sembra volermi mangiare, direi il ritmo.
Leggere questo meraviglioso volume, colmo di esempi di come il fumetto sia un genere espressivo dalle possibilità infinite, è stato come farsi un giro sulle montagne russe. A volte il racconto procedeva lento, ci si adagiava mollemente sulle tavole disegnate per arrivare alla conclusione (impatto). Altre volte due tavole bastavano a farti schioccare la mandibola di sorpresa. Ho avuto anche un paio i moti di disgusto (ma io sono debole di stomaco e certe immagini mi colpiscono).
Il tema comune è, ovviamente, il cibo. Diverse declinazioni del rapporto che l’uomo ha con il cibo. Molto spesso mangiamo, a volte veniamo mangiati. Siamo cibo per verbi, verrebbe da dire.
Mi piacerebbe poter scrivere qualche riga di approvazione per ognuno degli autori coinvolti in questo volume, ma rischierei di allungare a dismisura questa recensione. Ho quindi provveduto a mettere tutti i nomi dentro un barattolo e ho estratto tre nominativi.
Lorenzo Mo’, il primo racconto della raccolta. Una serie di super eroi improbabili e un po’ splatter che agiscono su uno sfondo fumettistico molto anni trenta (mi perdoni l’autore se ho cercato di localizzare temporalmente qualcosa che giaceva nella mia memoria).
Roberto Grossi e le sue “Formiche”. Un taglio da mangaka per raccontare una storia brevissima di desolazione. Vi sfido a non avere i brividi lungo la schiena dopo averla letta.
Mattia Moro e “Zia”, una storia di genere fantastico raccontata con quattro colori. Un tratto del disegno estremamente accattivante. Una storia spaventosa perché ambientabile dietro casa nostra.
Questi sono solo alcuni degli esempi che Maurizio Ceccato ha raccolto nel volume Gnam!, la varietà di stili e tecniche narrative è impressionante. Viene da chiedersi quante possano essere le strade che un disegnatore può prendere e forse il limite è solo la propria immaginazione.
Vi assicuro che all’interno di questo volume troverete quello che fa per voi. Alcuni fumetti hanno una vena poetica eccezionale, raccontati con un bianco e nero dall’espressività infinita.
Sono passate le feste di Natale, dovreste essere riusciti a mettervi via due soldi. Ecco come spenderli senza sentire i sensi di colpa.
Dietro a questo bel volumone c’è dunque una nostra vecchia conoscenza. Quel buon Maurizio Ceccato che, attraverso Ifix Design ci regala sempre delle copertine per aiutarci nel processo di innamoramento nei confronti di certi libri, di certi editori. Ifix in questo caso diventa una casa editrice bonsai. E’ nelle case editrici piccole ci stanno i libri buoni.
Newer Posts