Home Inchiostro - Recensioni di libri indipendenti e non. Se camminare fa troppo rumore – Giusi D’Urso – Recensione di Stefano Bonazzi

Se camminare fa troppo rumore – Giusi D’Urso – Recensione di Stefano Bonazzi

by senzaudio

«La paternità è principalmente un gesto simbolico, un atto (di fede? Chiedo io) che impegna tutta l’esistenza» -, sono parole di Recalcati che prendo in grembo e mi sento di avvicinare, forse sfrontatamente, ingenuamente, mentre Sofia resta vivida nella testa a lettura conclusa, con una riflessione che faceva il buon Celati riguardo le case, le più vecchie. Lo scrittore delle pianure sosteneva che sono le dimore vetuste a spaventarci di più, perché si portano addosso i segni e le tracce del passare del tempo – «e cosí le case che crollano sono sentite come una specie di malattia, una malattia che è semplicemente l’effetto del tempo che passa.»

Tempo / Casa / Padre, dunque, dovessi riassumere il romanzo di Giusi D’Urso confinandolo in sole tre parole userei proprio queste ma quanto sarebbe limitante? Un errore grave, imperdonabile. Per avvicinarsi alla poetica della D’Urso occorre scardinare le dinamiche dell’intreccio classico, aprirsi a una frammentazione dello spazio e della memoria, accogliere la confessione per quello che è: materia liquida, sfuggente come il riflesso di un volto che scivola assieme all’acqua tra le dita d’una mano. Come l’architrave di una casa che può crollare esponendo il mattone vivo, la calce, il metallo logoro, così questo romanzo non si fa problemi ad abbattere la cronologia esistenziale di una donna nomade di case, riferimenti, affetti.

«Nell’atrio della stazione mi prende a calci nel sedere e mi trascina in macchina. Io mi vergogno, la gente se le arricorda certe cose. Chissà dove sono stata, con chi, cosa ho fatto. Da quel momento mi aggiudico l’etichetta di puttana. Ma, signor giudice, sono innocente, lo giuro, sono ancora vergine.»

Quella di Giusi D’Urso, sarà meglio precisare fin da subito, è una storia di dolore, di mancanze, di una violenza subdola e obliqua, spesso inspiegabile, inflitta da un padre incapace di accettare le piccole ribellioni a cui ogni adolescente sarebbe lecito concederne l’assaggio.

In questo procedere, scomposto, a tratti onirico come il passo nella nebbia, attraverso il ricordo e l’analisi di ciò che è stato, di quella testarda rincorsa all’approvazione che non trova appiglio in una voragine famigliare consumata negli spigoli. Il mal de vivre che impregna queste pagine è qualcosa che si muove tra le parole come un insetto in fuga tra le intercapedini, un pesciolino d’argento vorace, una scutigera, un essere minuscolo, innocuo, veloce quanto un ricordo, tedioso quanto una notte insonne in ascolto della voce dell’orco.

Nella rievocazione di ciò che è stato l’insetto ritorna, corrode le pagine, così come l’acqua, un elemento accompagna la nostra in ogni casa. L’acqua di cui sono impregnate le mura della dimora d’infanzia e di nuovo l’acqua dei canali di Pisa a cui Sofia si affaccia per capirne la direzione, quella del fiume, la sua. Ma dopo l’acqua sopraggiunge l’umidità, la muffa e in certi frangenti del testo si ha quest’impressione quasi tattile di un velo perlato, vagamente appiccicoso, di cui s’inzuppano le parole come i vestiti nelle sere d’autunno. Una patina che avvolge, appiattisce i colori così come i sogni e la prospettiva di un porto sicuro, un abbraccio che sia tale ed è forse proprio in questo senso di frenetica ricerca senza prospettiva di un attracco che l’anima dell’opera si rivela.

Giusi D’Urso non addolcisce nulla, le botte del padre restano botte e non c’è male nel cervello che possa mutarne la forza del gesto. Se camminare fa troppo rumore è l’epopea fallace di una donna che nel dolore c’è nata, cresciuta e quando ha capito che non poteva sconfiggerlo, ha cercato in ogni modo di abituarcisi, prima subendo, poi studiandolo.

«Studio le patologie psichiatriche. La chimica dei pensieri malati, l’anatomia dei cervelli difettosi. Sembrano fabbriche senza regole o con regole distorte. Ah, sono brava, in questa materia, sono già esperta, conosco la follia a memoria.»

Al liceo dunque la folgorazione della psichiatria, l’epigenetica che affascina, Sofia se ne nutre – «dopo il latte di mia madre» -, la sofferenza degli altri la devasta – «non sono capace di distaccarmene» -, nello smottamento esistenziale restano pochi rifugi: lo scambio epistolare con l’amica Filomena, oggi distante, nel suo dialetto di bambina che rievoca fantasmi scomodi, l’incontro con un amante pronto ad umiliare, quasi ve ne fosse l’esigenza, ‘che piegarsi al dolore fisico è sempre meglio all’emorragia del cuore e di nuovo il padre, supplizio perenne, la malattia bastarda che se lo mangia pianopiano lasciando un corpo scomodo ad accendersi e spegnersi, lampadina negli ultimi sprazzi di energia.

Si avverte un lavorio sommesso e frenetico nella lingua della D’Urso, è la voce semplice di chi certi mali precari li sa trattare con il rispetto di una prima persona autentica, umanamente fallibile, imperfetta e questo già di suo, per chi scrive, basterebbe per lodarne a iosa l’impresa.

In questi tempi d’idoletti assurdi, monologhi artefatti e girotondi di trofei da comodino, ritrovarsi nella corrente di questa vita sghemba lenisce il peso della sconfitta.

Sta tutto in quel tentativo folle di restare in equilibrio, Giusi D’Urso lo sa bene, se nella vita non c’è sollievo, che sia la parola a portar riscatto.

Stefano Bonazzi

Commenti a questo post

Articoli simili

Leave a Comment