L’estate breve andrebbe letto a ritroso, dall’ultima pagina alla prima. Sarebbe come osservare l’immagine di un uomo che cade dal quinto piano di un palazzo e, riavvolgendo il nastro, avere la sensazione che stia volando, che qualcosa di prodigioso – e non di tragico – stia avvenendo davanti ai nostri occhi.
Enrico Macioci scrive un romanzo sulla perdita, raccontando quello che Pier Vittorio Tondelli chiamava questo nostro sofferente divenire.
Con la perizia del fisico, Macioci prova a definire cosa sia quello stato di conflitto, quella guerra fiorita, che è la giovinezza.
Questa è la storia di un ragazzo che ha un amico, il Magnifico Michele, che gioca al calcio come nessun altro e questo suo smisurato talento, per il protagonista che pure avrebbe desiderato diventare un calciatore, diventa un doloroso esame di realtà.
In questo piccolo libro dell’abbandono si consuma quello che Igor Caruso chiamava il problema della separazione, per il quale avvertiamo il sopraggiungere della fine, della morte, nella coscienza umana e non in senso figurato, ma concreto e letterale.
Il protagonista, crescendo, è chiamato a separarsi dall’immagine che si era costruito di sé. Non sarà un calciatore, capisce misurando il suo talento con quello dell’amico prodigioso, e non sarà il fidanzato di Miriam, la ragazza di cui si è innamorato ma che non lo corrisponde.
Non vivrà per sempre a Prato Verde, perché la sua famiglia si trasferirà in una città diversa, anche se una parte di lui ci resterà per sempre.
TerraRossa Edizioni, aveva già pubblicato Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia un racconto in cui Macioci aveva confermato una certa attenzione per alcune tematiche che, nella sua produzione letteraria, forse potremmo definire “ricorrenti” come la crescita, la perdita dell’ingenuità, la capacità che hanno tutti i ragazzi di essere feroci.
Ho trovato ne L’estate breve una scrittura estremamente sensoriale. Macioci usa molto i colori, gli odori, lo faceva anche in Sfondate la porta. È un modo di scrivere propriamente suo, mi sembra di capire, sul quale riflettere come esercizio di scrittura.
Uscito per Mondadori nel 2015, allora si chiamava Breve storia del talento, questo romanzo è, come racconta lo stesso autore nella prefazione, sia vecchio che nuovo.
Diviso in due parti, su invito di Giovanni Turi, il suo nuovo editore, tutta la seconda parte della vicenda viene raccontata di nuovo, con la diversa luce di questi nove anni.
La prima parte, potremmo definirla “l’estate” o “la giovinezza”, dove si narra di quel momento della vita in cui tutto può davvero accadere. Siamo negli anni Novanta e una certa ingenuità persiste e i personaggi di questa storia s’illudono ancora di poter vivere un presente capace di riempirli, senza guastarlo con gli inutili affanni dei rimpianti e delle aspettative.
C’è poi una seconda parte, che arriva come “l’autunno” o “la maturità”, in cui Macioci ci porta molti anni avanti, quando il protagonista è diventato uno scrittore non pienamente realizzato, che prova a risolvere la sua crisi esistenziale tornando indietro. Non trova se stesso, nei luoghi dell’infanzia, ma solo un vecchio amico che adesso fa il custode della scuola ed è rimasto, da solo, a custodire anche i ricordi. A questo amico, Giampaolo, il protagonista chiede dove siano finiti tutti.
Recensione di Pierangelo Consoli.