Ricordo ancora con piacere il precendente romanzo di Vito Di Battista. Sono andato a controllare, era il settembre del 2018, il libro era uscito qualche mese prima, era l’esordio di Di Battista e se dopo tutti questi anni mi ricordo ancora di Molly Buck credo che questo fatto non possa essere che interpretato come un buon segno. E ancora, sempre riflettendo sul romanzo precedente, mi pare di poter trovare dei punti in comune che funzionano un po’ come indizi per cercare di capire la poetica di questo scrittore. Ad esempio mi sembra evidente che sia nell’esordio che in questa seconda prova, Di Battista faccia un buon uso della distanza.
“Il buon uso della distanza” è appunto il nuovo romanzo di Vito Di Battista uscito da poco per l’editore Gallucci. Racconta la storia di Pierre Renard, tanto simile al Menard di Borghesiana memoria che come scopo della vita voleva riscrivere il Chisciotte di Cervantes parola per parola, anche se ovviamente questa quasi omonimia non è totalmente casuale. Renard è uno scrittore che lavora per una casa editrice, ha pubblicato per loro un romanzo che ha avuto un tiepido successo. Non è stato ignorato, ma non ha nemmeno prodotto un volume di vendite sufficiente per garantirgli una carriera. Infatti la sua seconda opera viene bocciata. Poco dopo viene contattato da una donna misteriosa che si fa chiamare Madame. La donna lo coinvolge in un’impresa che ha dell’assurdo. Gli invierà periodicamente del materiale e lui dovrà scrivere dei romanzi che, cosa importantissima, non dovranno mai uscire a nome Renard. Inizia qui la discesa verso gli inferi di Pierre Renard che si trova a essere lacerato nel profondo. I rapporti con l’amico Philippe, collega nella stessa casa editrice in cui lavora Renard, si incrinano, soprattutto nel momento in cui entra in scena Claire, la ragazza di Philippe di cui Renard si invaghisce immediatamente e che alla lunga è l’unica cui Renard riuscirà a raccontare tutta la propria storia.
“Il buon uso della distanza” è un romanzo colmo di personaggi interessanti, tra tutti vorrei citare Colette, l’anziana Maitresse che fa da tramite tra Renard e Madame e che governa una casa chiusa nella quale si intrecciano i destini di più persone.
Ognuno di questi personaggi detiene un piccolo pezzo di verità ma solo Renard, alla fine, riuscirà a metterli assieme e rendersi conto di quale sia il vero piano di Madame e di quanto il proprio destino fosse segnato già dalla nascita.
Pierre Renard è condannato a una serie di esordi, molti dei quali di grande successo, ma pochi sapranno che dietro ai titoli più chiacchierati del momento si cela la sua penna e tra quei pochi saranno ancora meno quelli che lo supporteranno in questa follia. E’ come se Renard, libro dopo libro, si frammentasse e perdesse a piccoli pezzi tutto sé stesso. L’identità dell’uomo si sfilaccia a poco a poco, i ruoli che gli altri gli affibbiano lo appesantiscono e lo portano a un finale inevitabile.
Cosa desiderava davvero Pierre scrivendo a nome proprio? La fama? Il successo? Il riconoscimento di un traguardo importante?
Cosa ha ottenuto poi dai libri che ha scritto e ha fatto uscire sotto falsa identità?
Forse ha capito che nulla di ciò che stava facendo avrebbe cambiato un destino ormai segnato.
“Il buon uso della distanza” mi sembra un romanzo di altri tempi, con forti influenze ottocentesche. I personaggi sono personaggi e, anche se quà e là ho notato riflessioni sul mondo dell’editoria molto attuali che potremmo mettere in relazione con l’autore stesso, mi sento di dire che il libro si allontana pesantemente dall’autofiction e da quelle forme di promiscuità autore/personaggio cui cui si investe moltissimo al giorno d’oggi. Ognuno di loro ha una sottile vena di malinconia data dal peso della vita, ognuno di loro, Renard tra tutti, ha un linguaggio attraversato da una forte componente lirica, tutti assieme sembrano portare avanti una riflessione sul ricordo, l’identià e il destino.
Anche in questa seconda opera, soprattutto in questa seconda opera, Di Battista costruisce una storia ambientandola lontano da noi, in una Parigi inospitale, fredda e umida, in cui l’immagine è la padrona assoluta. Ma al di là di questo, non c’è nulla di quanto raccontato in questo romanzo che non possa essere messo in relazione con ciò che ci circonda ora. Pur utilizzando uno stile che strizza l’occhio ai fasti del romanzo Di Battista scrive un’opera contemporanea le cui riflessioni sono profondamente attuali.
Vito di Battista è nato nel 1986 in un paese d’Abruzzo a trecento gradini sul mare e vive a Bologna. Nel 2012 è stato selezionato per il Cantiere di Scritture Giovani del Festivaletteratura di Mantova. Agente letterario, editor e traduttore, ha scritto su “Futura”, la newsletter del “Corriere della Sera”, e su “Nuovi Argomenti”. Il suo primo romanzo, uscito nel 2018, è L’ultima diva dice addio.