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Quelli che pensavamo di conoscere – David Joy – Recensione di Claudio Della Pietà

by Claudio Della Pietà
David Joy

“Sto solo dicendo che ciò che ci viene detto per tutta la vita potrebbe non essere tutto quello che c’è da sapere. A volte ci sono cose che ci vengono dette per tutta la vita che sono completamente sbagliate”.

Le musiche che mi accompagnano nella stesura di questa recensione, sono degli studi per pianoforte, il titolo dell’album è appunto “Instrumental study”. Le melodie sono a tratti struggenti, tristi, melanconiche, ma anche rappacificanti, stimolanti, accompagnano bene la riflessione e suggeriscono il coraggio e la voglia di non lasciar perdere, di non dimenticare.

“Quelli che pensavamo di conoscere” è il romanzo scritto da David Joy e pubblicato da Jimenez Edizioni nella traduzioni di Gianluca Testani, di cui voglio scrivere per invitare quante più persone possibili a leggerlo. Nulla c’è da aggiungere al contenuto del libro, nulla a come è scritto, ma un buon lettore deve, ad ogni costo, promuovere la lettura di testi come questo.

Il titolo suggerisce molto, ma non toglie nulla al piacere di addentrarsi nella storia di una comunità della Carolina del Nord, nella contea di Jackson, in quegli Stati Uniti d’America il cui fascino si perpetua nel tempo ma le cui crepe lasciano filtrare sempre più evidenti segni di difficoltà strutturali. La più piccola scossa tellurica potrebbe far crollare da un giorno all’altro l’edificio che tanti abbiamo sempre considerato il più solido di tutti, quello impossibile da abbattere.

“Era andata su quelle montagne per rintracciare le sue radici, da dove e da chi era venuta. Nei mesi precedenti aveva ripulito la mente da ogni preconcetto, da ogni pregiudizio che poteva avere, in modo da entrare in quello spazio alla cieca e senza alcun complesso.  …non aveva idea di come sarebbe stata la ricerca, o dove l’avrebbe portata”.

Toya Gardner, una giovane studente appartenente alla comunità di colore del suo paese, torna da Atlanta e va ad abitare  la casa della nonna Vess, rendendosi presto protagonista di una fatto eclatante che scuote la contea di Jackson, e la desta da un torpore mentale consolidato cui reagisce con grande difficoltà. Contemporaneamente, come in tutti i “gialli” che si rispettino, una strana vicenda avviene parallelamente a quanto coinvolge Toya, e pare ad alcuni che i due fatti siano legati l’uno all’altro, mentre altri dicono esattamente il contrario. I pareri sono discordi soprattutto all’interno delle forze dell’ordine a capo delle quali c’è lo sceriffo Coggins, protagonista indiscusso del romanzo insieme a Toya.  Le indagini si avviano per cercare di risolvere i casi  permeati entrambe dal razzismo, con radici che affondano fino alla storia degli schiavi giunti negli Stati Uniti dall’Africa.

“A ventiquattro anni dovresti startene in spiaggia da qualche parte. Dovresti uscire con gli amici e goderti gli anni migliori della vita. Non dovresti nemmeno pensare a cose come questa”.

Nel momento in cui inizia la ricerca della soluzione dei due casi, appena accennati per non svelare nulla di più dell’essenziale, soluzioni marginali nell’economia globale del testo, inizia a mio parere il bello di questo lavoro di scrittura di David Joy. Inizia da quel momento l’analisi della natura umana da parte dell’autore, che ce la svela raccontandoci una storia comune, diffusissima, in ogni dove e da sempre. L’autore ci presenta gradualmente una serie di personaggi che come i pezzi di un puzzle entrano con le loro specifiche forme e dimensioni, nel loro posto e solo in quello, ma insieme formano una zona dell’immagine, danno un colore, e lanciano un messaggio ben chiaro nel quadro, che definiscono la natura profonda di quella comunità.

Amerete Vess, la nonna di Toya, che tutto darebbe per il bene di quella ragazza, di un amore indicibile, ma allo stesso modo vi legherete alla mamma di Toya che si conosce un po’ più tardi, perché figlia e madre sono effettivamente più distanti tra loro. Vess è eccezionale, come vorrei fosse stata la mia nonna.

Questa è la storia di Toya Gardner, di un ragazza che invece di andare in spiaggia con gli amici, o probabilmente anche ci va non è questo che conta di più, conta che questa ragazza combatte il razzismo, vuole vivere e sconfiggere questo male atavico di cui non ci si riesce a liberare. E anzi, questo male, come il cancro a volte pare svanire, ma in realtà si nasconde e poi, maledetto, riappare ancora più forte portandoci via ciò chi  si ha di più caro.

Ecco, io racconto così questa lettura, perché di più non serve. Questo romanzo lo ripeto, parla del razzismo, di un male che pare inestirpabile e di qualcuno che nonostante tutto decide di provare a vincerlo. Come già scrissi in un breve post, prima di leggere “Quelli che pensavamo di conoscere” immaginavo un libro di carattere particolarmente duro, combattivo, addirittura permeato di vendetta verso quelli che pensavamo di conoscere. Il colpevole era già scontato nel titolo, per cui ero già orientato con il pensiero alle modalità di individuazione e condanna, e invece no. Il romanzo trasuda amore per la vita, per la vita buona, libera da atteggiamenti che definirei semplicemente brutti, che abitano tanti di noi, forse tutti, e in particolar modo quelli che pensiamo di conoscere.

Non privatevi di questa bellezza, leggete il romanzo di David Joy, e parlatene!

Sapete quale è uno dei primi pensieri che mi è venuto dopo aver concluso la lettura?

Questo: se invece di chiacchierare a vanvera nel tanti e troppi talk show, di temi come quello del razzismo, si leggessero pagine come queste e poi si dialogasse a partire da quanto si è letto…Ah come sarebbe utile e bello! Un’utopia? Ahimè credo di sì, ma la speranza è ancora l’ultima a morire. Buona lettura.

“…il punto è che non devi necessariamente essere tra quelli che hanno piantato l’albero o tra quelli che lo innaffiano e lo potano per beneficiare direttamente dell’ombra che fornisce. Ci sono tante persone sedute comodamente sotto quell’albero e alcune di loro sanno dove sono sedute e non faranno nulla perché stanno bene dove sono sedute, e poi ce ne sono alcune che non sanno neppure riconoscere che l’albero è lì”. (Toya)

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