Narra la leggenda che un Quentin Tarantino appena quindicenne fu scortato a casa dalla polizia dopo aver rubato in un supermarket il libro “The Switch” di Elmore Leonard, uscito in Italia con il titolo “Scambio a sorpresa” (Giallo Mondadori). E che sua madre Connie per punizione lo costrinse a leggere una quantità inverosimile di libri durante le vacanze. L’unico film di Tarantino esplicitamente tratto da un romanzo è “Jackie Brown” scritto ovviamente da Leonard e uscito con il titolo “Punch al rum” e, siccome nel cinema di Tarantino tutto ritorna, una parte del film sarà proprio ambientata nello stesso centro commerciale dove il regista allora quindicenne rubò il libro, il Del Amo Fashion Center. È forse Tarantino uno dei più grandi narratori moderni? Su questa domanda si potrebbe discutere intere giornate, anche perché il suo cinema divide più che unire. Ci sono forti contrasti tra chi è innamorato del suo cinema fino a diventare quasi un estremista e chi, invece, lo considera estremamente sopravvalutato. Premettendo che io faccio parte del primo gruppo e quindi non posso essere pienamente oggettivo, non si può negare che all’interno dell’universo parallelo creato dal regista americano vi è un sapiente uso di artifici letterari, come ad esempio spezzare la continuità della storia anticipando e posticipando i capitoli. Cosa che prima di “Pulp fiction” era raro vedere. Inoltre l’uso stesso dei capitoli è tipico dei libri e non dei film. Tarantino quindi può essere considerato uno scrittore che usa le immagini come parole oppure un regista che scrive film? Forse. Sicuramente, anche se viene spesso fatto notare il suo uso smodato di citazioni di altri film, non è da dimenticare l’uso di quelli letterari. Nel suo primo film “Le iene” uno dei personaggi si chiama Mr. Blue ed Edward Bunker in persona ad interpretarlo, uno dei migliori scrittori di crime e noir. Sempre in questo film avrebbe voluto far declamare al personaggio Joe Cabot una poesia di Sylvia Plath ma gli eredi rifiutarono i diritti. Il personaggio della sposa di “Kill Bill” interpretato da Uma Thurman ha notevoli riferimenti alla protagonista del libro “La sposa in nero” di Cornell Woolrich. Vincent Vega interpretato da John Travolta in “Pulp Fiction” ogni volta che va in bagno porta con sé il romanzo “Modesty Blaise” di Peter O’Donnel. Inoltre il titolo di lavoro del film che lo consacrò come regista di culto era “Black Mask”, come le antologie di scrittori pulp anni Venti, quelle che fecero nascere la figura stereotipata dell’investigatore privato che curiosamente Charles Bukowski prese in giro nel suo romanzo dal titolo “Pulp”. Tutto torna. Inoltre non si possono non considerare le influenze nello stile e nei dialoghi del maestro del noir Jim Thompson che nei suoi romanzi utilizzò sempre personaggi truffatori, perdenti, violenti e spesso psicopatici e ha utilizzato quasi sempre un narrazione in prima persona per trasportarci dentro la follia delle sue storie, un po’ come fa Tarantino che sa rendere simpatici personaggi che decontestualizzati dalla narrazione andrebbero incarcerati e allontanati il più possibile. Anche nei suoi ultimi film come “Django unchained “ c’è una scena in cui il dott. Schulz racconterà proprio a Django una parte della storia di “Sigfrido e la saga dei Nibelunghi” e sarà un importantissimo snodo narrativo. Ed è innegabile il riferimento ad Agatha Christie nel suo “The Hateful Eight”. Quindi Quentin Tarantino è un indubbiamente un divoratore di film di qualunque tipo che rielabora e “trasforma” in qualcosa di unico ma anche un buon lettore che riesce a inserire molti riferimenti letterari con estrema nonchalance, senza farcene neanche accorgere. Inoltre ha dichiarato di voler dirigere solamente altri due film e poi abbandonare la regia. Per fare cosa? Ovviamente lo scrittore.
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Ed Wood è considerato da molti critici “il peggior regista di tutti i tempi”, tanto scadente da diventare un autore di culto. È noto soprattutto come regista del B-movies “Plan 9 from Outer Space” (1955). Un visionario, o forse un folle sognatore, con enormi ambizioni e idee ma senza i soldi necessari per poterli realizzare. Un personaggio unico e ambiguo, perfetto per diventare il protagonista di un film di Tim Burton che sulla stranezza ha basato la sua filmografia e caratterizzato i suoi personaggi. Per interpretarlo scegli il suo attore feticcio Johnny Depp che lo incarnerà perfettamente. Il titolo sarà appunto “Ed Wood” uscito nel 1994.
Questa premessa serve solo per delineare i contorni di un uomo fuori dagli schemi classici, di un visionario con una fantasia perversa, una mente capace di creare sogni violenti.
“Splatter. Scritture pulp” (Galucci editore) raccoglie 34 racconti di Ed Wood scritti per racimolare qualche soldo per sopravvivere e per farsi qualche bevuta in più. Racconti scritti a cavallo degli anni sessanta e settanta e che erano usati per riempire gli spazi vuoti tra le fotografie di pin-up nelle riviste soft porno dell’epoca. Sono racconti pregni di violenza, di sesso, di erotismo sporco e nonostante vengano trattate queste tematiche si percepisce un’eleganza simile a un golfino d’angora da donna di cui Ed Wood era fanatico e che amava indossare vestendosi poi completamente da donna. Lui era anche questo, un mix di contraddizioni.
All’interno del libro si trovano mariti stanchi, donne che amano essere possedute carnalmente da demoni, preti in guerra, missionari e ubriaconi annoiati. Personaggi che si muovono in una palude da cui nessuno riesce ad uscirne pulito, dove la morte è in attesa della sua vittima e in questi racconti ha un sacco di lavoro da fare. Dalle parole emergono desideri più o meno nascosti e pulsioni. E sono proprio queste ultime a muovere la mano di Ed Wood e la sua mente disegna usando il sangue come colore. Forse “il peggior regista di tutti i tempi” ma di certo un maestro del pulp, quello vero, quello puro.
La traduzione è di Daniele Petruccioli
L’evoluzione del genere umano e la ricerca del progresso hanno a che fare col desiderio della nostra specie di governare la natura.
Il fuoco per fermare il processo di decomposizione, la ruota per potenziare la proprie capacità di locomozione, la telecomunicazione per accorciare le distanze.
Una cosa su tutte appare inesorabilmente ingovernabile: il tempo; la saggezza popolare è piena di aneddoti sul tempo implacabile, un tempo organizzato per stagioni dell’anno, stagioni della vita, stagioni dell’animo, tempo che silenziosamente scava le cose del mondo, ne cambia i connotati e la loro percezione.
Ma Per quanto non si possa controllare si può almeno cercare di comprenderlo poichè, si sa, un buon governo si fonda su un’approfondita conoscenza della materia. Tra i primi a tentare l’impresa e a renderla rappresentabile visivamente fu Eadweard Muybridge, pioniere della fotografia in movimento il quale pose, inconsapevolmente, le basi per l’inizio della storia del cinema, un’ altra arte che, ossessionata da Κρόνος tenta di impadronirsene imitandolo, inventandolo e dilatandolo a proprio piacimento.
Qui e Là, di Antonio Méndez Esparza, un incontro casuale, una amicizia spontanea e immediata.
Affascinante è l’aggettivo che uso per un film che sono riuscito ad acciuffare oltre il tempo scaduto e con la fortuna di poter intervistare, al termine della proiezione, il regista Antonio Méndez Esparza collegato via skype dagli Stati Uniti.
La storia è quella di Pedro, un musicista che vive qui, nel suo piccolo villaggio in Messico, con la sua famiglia una moglie e due figlie, gli amici con i quali condivide il sogno di poter costituire una band, ma che vive anche la, lontano da tutto questo, a New York dove lavorando in un supermercato può immaginare di migliorare la sua vita e quella di suoi famigliari.
Un intreccio semplice e vero, il resoconto di molte storie comuni a migliaia di famiglie latino americane, uno scenario normale quello della vita quotidiana nel villaggio, raccontata attraverso moltissime difficoltà dovute al fatto che tutti gli abitanti sono stati coinvolti nella narrazione, attori non professionisti che all’inizio hanno partecipato volentieri alle riprese, per poi soffrire in misura crescente della lunga e faticosa lavorazione, e da ultimo averne nostalgia a riprese terminate. I set sono le abitazioni vere nelle quali gli interpreti ed i personaggi del film vivono. Oltre a questo, l’impatto con la realtà della vita del villaggio detta tempi e coinvolgimenti distinti, come spiega il regista: “Ci abbiamo lavorato sei mesi, quattro mesi di pre-produzione e due di produzione. I mesi di pre-produzione sono stati così tanti proprio perchè era necessario ambientarsi bene”.
E’ molto chiara la duale esistenza di Pedro che a New York soffre per la lontananza e per l’impossibilità ovvia di non poter essere vivo nella vita del suo piccolo villaggio, ma al tempo stesso una volta ritornato in Messico capisce che non esistono alternative ad un nuovo viaggio per tornare lontano e poter assicurare quasi tutto quello che necessita alla sua famiglia.
Questo vivere, mentale e fisico, in due posti così diversi e lontani, pone il protagonista in un continuo stato di problematicità decisionale che è una delle straordinarie intuizioni del regista, capace di coinvolgere lo spettatore fino a fargli capire cosa significhi vivere due esistenze completamente diverse ma in contemporaneità emozionale. E’ un film che riesce a proporre con molta efficacia nuove mediazioni tra realtà e racconto, tra informazione, anche di denuncia, e aspetto poetico.
Antonio Méndez Esparza è nato in Spagna, ad Alcobendas e cresciuto a Madrid, dopo la laurea in giurisprudenza si trasferisce a New York dove studia cinema alla Columbia University. Qui e Là è il suo primo lungometraggio di fiction, il culmine di cinque anni di lavoro. Attualmente insegna Cinema all’Università di Tallahassee, in Florida.
Il film, uscito nel 2012, a basso budget e in formato digitale per le riprese, ha vinto numerosi premi tra i quali CANNES 2012 Gran Premio Settimana Internazionale della critica.
Sembrava potessero fare man bassa di statuette, ma così non è stato.
Sto parlando di due film che hanno molte cose in comune.
Il primo è American Hustle, dalla storia vera di due truffatori costretti a collaborare con l’ FBI per incastrare dei politici corrotti. Un film brillante, con un giusto mix tra tensione, ironia, dramma e divertimento. Ambientazione, costumi e colonna creano il giusto mood per farci sentire negli anni ‘70. Gli attori fantastici: Christian Bale protagonista completamente trasformato, Bradley Cooper che interpreta con ironia il ruolo del poliziotto dell’ FBI e le bellissime e bravissime Amy Addams e Jennifer Lawrence. 10 Nomination, gli ingredienti per vincere qualcosa c’erano tutti.
Il secondo è The Wolf of Wall Street, racconta la vera storia di Jordan Belfort, un broker di borsa, che inizia la sua carriera tra alti e bassi, imparando durante il suo apprendistato a truffare i propri clienti e a lavorare usando qualunque tipo di droga per mantere la mente svelta per il proprio lavoro. Ben presto, grazie alle proprie capacità, Jordan costruisce un impero, ma fondato sull’illegalità, guadagnano cifre sprositate e vivendo una vita di eccessi. Leonardo DiCaprio protagonista assoluto di questo film in una delle sue migliori interpretazioni. Anche in questo caso fantastico l’ambientamento tra la fine degli anni 80 e i primi 90 con un piccolo cameo italiano, la canzone “Gloria” cantata da Tozzi. Di Leonardo DiCaprio ho già detto, ma degni di nota anche Jordan Hill, che interpreta Donnie, il socio di Jordan, e Matthew McConaughey che interpreta il capo di Jordan, durante il suo apprendistato. Dieci minuti fantastici. Anche qui un’attrice bella e bravissima, Margot Robbie. 5 Nomination, 2 per Leo, questa è la volta buona che una statuina la porta a casa.
Avrete già capito alcune cose che hanno in comune questi film, ma io vorrei soffermami su tre in particolare.
La prima: i protagonisti sono dei delinquenti, su questo non ci piove. Ma sono delle simpatiche canaglie. Non puoi non averli in simpatia, per l’astuzia e la leggerezza con cui operano i loro inganni, per il loro stile di vita così eccessivo. In fondo a tutti piacerebbe avere un capo come Jordan. Due farabutti con stile.
La seconda: sono entrambi rimasti a bocca asciutta agli Oscar. Zero per entrambi.
La terza: sono gli unici due film candidati all’oscar che sono riuscito ad andare a vedere.
Forse ho portato sfiga…
Il lupo perde il pelo ma non il vizio. In questo caso i lupi sono un paio: il regista, Martin Scorsese e l’attore protagonista, Leonardo DiCaprio. Folle, ironico, violento, perverso, crudo, retorico, narrativo: ecco cos’è l’ultimo incontro tra i due lupi e i loro vizi.
Spoiler: A grandi linee le 3 ore di “ The wolf of Wall Street ” narrano la storia di Jordan Belfort, apprendista broker alla conquista di Wall Street, grazie a uno stile di vita esagerato basato sul sesso e sull’assunzione di droghe di ogni tipo per aiutare la mente a raggiungere risultati eccessivi. Nonostante il lunedì nero del ‘87, grazie a un modestissimo call center che si occupa della vendita di azioni quotate pochissimo e grazie al suo stile aggressivo Jordan riesce ben presto a tornare in carreggiata e a riprendere la sua carriera di broker, ottenendo guadagni sempre maggiori. Con Donnie Azoff fonda uno studio, di dipendenti malavitosi, trasformandolo ben presto in una società, la Stratton Oakmont.
Grazie ad un complesso giro di truffe, che consente agli impiegati di guadagnare tantissimi soldi su ogni commissione, Jordan e i suoi impiegati conducono una vita di eccessi tanto al lavoro quanto nel privato. Purtroppo l’agente FBI Patrick Denham inizia a indagare sugli illeciti della Stratton. Tra le varie disavventure e a causa del rischio sempre maggiore di essere scoperto, Jordan decide di lasciare l’azienda per salvaguardarsi dall’FBI, ma durante il suo discorso di commiato ritratta. E questo decreterà inesorabilmente il suo declino. La svizzera dove ha scelto di nascondere i suoi soldi diventerà quindi croce e delizia del suo cammino. L’inefficienza del loro banchiere di fiducia porterà all’arresto del buon DiCaprio che si salverà soltanto tradendo tutta la ciurma.
Caratteristiche fondamentali del film lo avrete sentito dire da tutti sono la presenza di un sacco di scene forti, di tutti gli eccessi, donne stupende, droga, una fotografia e dei costumi fantastici. Ma la prestazione di DiCaprio è oltre l’Oscar. 3 ore di assoluto dominio dell’obiettivo, scene di ogni tipo, dal pacato alla pazzia più totale, dal drammatico al divertente con il picco massimo sulla paralisi da quasi overdose di quaalude. Scena perfetta.
Che dire, invece, di Scorsese, ormai una certezza. I suoi non saranno dei film che la critica digerirà sempre con piacere ma sono perfetti per il pubblico. Questo stupisce, affascina e cattura completamente per narrazione, scioltezza e carattere. Ci vogliono delle palle quadrate per uscire con un film così, anche se fare una narrazione in prima persona basata su una biografia ti permette qualche licenza poetica in più. Infatti il protagonista reale e le associazioni di categoria hanno criticato una visione un po’ idialliaca di Scorsese quando secondo me lo scopo finale era comunque di accusa.
Le truffe e il crimine pagano sempre per troppo poco. E si rischia di rimanere sempre con un cerino in mano. Quello che è successo per l’ennesima volta a Leonardo DiCaprio. No Oscar No Party? Se serve a garantirci prestazioni sempre migliori, dateglielo solo a 90 anni.
Che sia uno dei migliori attori in circolazione, se non il migliore, è cronaca.
ps. Voto di merito alla meravigliosissima Margot Robbie
Ammettiamolo pure: il 99,9% di noi non potrebbe mai stare senza Internet. Non facciamo altro che ripetere frasi come “Siamo stati per millenni senza Internet, sopravvivremmo lo stesso”, ma la verità è che se, per un motivo X, improvvisamente non avessimo più la possibilità di navigare online, la maggior parte della popolazione mondiale darebbe di matto (compresa la sottoscritta, molto probabilmente).
Se, sotto molti aspetti, Internet ci ha semplificato la vita, poiché ci basta aprire una pagina web per avere l’intero mondo a nostra disposizione, è comunque vero che un uso errato o eccessivo di questo potente strumento può facilmente tramutarsi in un mezzo di distruzione dell’anima. Questo è il messaggio che lancia, a parer mio, con ottimi risultati, il film “Disconnect”, in cui il tema centrale non è Internet, bensì il senso di solitudine che spingerà i protagonisti ad avventurarsi nello spietato mondo del web, dove qualsiasi informazione è lì, pronta per essere consultata in un nanosecondo.
Diretto da Henry Alex Rubin nel 2012, ma distribuito in Italia soltanto dal 9 gennaio 2014, “Disconnect” racconta tre storie che, proprio a causa di Internet, s’intersecheranno l’una con l’altra: prima di tutto la storia di Rich Boyd (interpretato da Jason Bateman), un uomo perennemente attaccato al suo smartphone e talmente concentrato nel lavoro da trascurare la famiglia, in particolare il figlio adolescente Ben, un ragazzo introverso e solitario, con una grande passione per la musica, il quale verrà presto preso di mira da due compagni di scuola, che gli tenderanno una trappola su Facebook; poi la storia di Derek e Cindy Hull, sposati da anni, il cui rapporto è entrato in crisi dopo la perdita del figlio appena nato, attaccati da un hacker che riuscirà ad accedere al loro conto in banca; infine la storia di Nina, brillante giornalista, intenta ad indagare a proposito di un sito in cui ragazzi e ragazze offrono prestazioni sessuali virtuali in cambio di soldi e regali, mediante una vera e propria wishlist.
A differenza dei classici film-denuncia di cui ormai ne abbiamo piene le scatole, “Disconnect” mira più ad analizzare i sentimenti dei personaggi coinvolti, che a manifestare contro l’abuso di Internet: abbattendo il muro virtuale dietro cui, volente o nolente, si erano finora nascosti, i protagonisti, tramite le forti esperienze che vivranno in prima persona, riusciranno in qualche modo ad “emergere” dal cyberspazio e a diventare persone “reali”. Con esito positivo o negativo, lo scoprirete guardando il film.
Altro particolare interessante, a mio avviso, l’utilizzo dei colori: tonalità spente, che descrivono perfettamente lo stato d’animo dominante nei protagonisti, e permettono allo spettatore di vivere con essi la loro situazione di disagio, il loro sentirsi costantemente nel posto sbagliato.
Sebbene non sia uno dei film più allegri di sempre, vi consiglio assolutamente di vedere “Disconnect” perché penso vi farà riflettere molto, in primo luogo sulla mancanza di riguardo verso le cose importanti, quali la famiglia, l’amore, e soprattutto il concetto di identità; in secondo luogo avrete la possibilità di provare una molteplicità di emozioni: dalla felicità al dolore, dal rimorso allo stupore, qualsiasi emozione proverete, vi resterà comunque impressa per sempre.
Premetto che se siete alla ricerca di risposte non le troverete in questo post. Se invece volete ripercorrere la carriera di uno dei migliori attori contemporanei del cinema che è in uscita nei cinema con il suo ultimo film che ha già fatto discutere, siete nel posto giusto.
La prima volta che incrociai la faccia di Leonardo DiCaprio – in questo post sarà Leo per una questione di semplicità, no non siamo amici – avevo undici anni e andavo in prima media. Erano i tempi di Titanic, un film che forse qualcuno ricorderà. In prima media ero in una classe prevalentemente femminile, e quindi dividevo il banco con una ragazzina molto carina che amava riempire il suo diario di cuoricini intorno alle foto di Leo. Potete immaginare la mia stima per l’allora giovane biondino dalla faccia perfetta.
Io non andai a vedere il film al cinema, perché tra i maschietti girava voce che il film fosse cosa da femmine. “Piuttosto andiamo a giocare a pallone, che è meglio”. Qualche anno dopo il film arrivò in una videocassetta a casa mia e lo vidi. Ricordo bene che rimasi incollato sino alla fine e quasi mi commuovevo mentre Jack (Leo) affondava per dare la zattera a Rose (Kate Winslet). Alla fine del film badai bene a guardarmi intorno e vidi che non ero l’unico maschietto quasi commosso e mi sentii meno in colpa. Da allora in poi Leo DiCaprio era quello di Titanic.
Qualche anno dopo Leo fu protagonista in un film – The Beach – di Danny Boyle, che aveva ancora a che fare con il mare. Di quel film – che non fu affatto male – si ricorderà un brano della colonna sonora composto da Moby. Il film ovviamente non ebbe il successo di Titanic e in molti pensarono che l’allora trentenne Leo fosse già in fase calante.
Nel 2002 – due anni dopo -, Leo getta via il costume e indossa un cappello da cowboy per interpretare un giovane irlandese in una New York di metà Ottocento: Gangs of New Yowrk. Il regista è Martin Scorsese. E’ l’incontro che cambia la vita di Leo, da quel film infatti nasce un rapporto di stima e affetto con il regista che lo porterà a recitare in altri suoi film di grande successo. Sempre in quell’anno esce un altro grande film dove Leo è protagonista: Prova a prendermi. Il regista è un certo Steven Spielberg. Un altro che sa il fatto suo. Nel film Leo interpreta Frank Abagnale Jr – noto truffatore degli anni sessanta. Nel cast tra gli altri figurano anche Tom Hanks e Christopher Walken. E’ il film della svolta, la prova di Leo è sopra ogni aspettativa ma viene – ancora una volta – snobbato dalla criticata, e soprattutto dalla giuria degli Oscar.
Due anni dopo esce The Aviator, altro film di Martin Scorsese, e altro film in cui Leo sfoggia tutta la sua bravura ed eleganza interpretando una leggenda dell’aviazione americana: Howard Hughes. Il film è candidato a undici premi Oscar, tra cui Miglior Film, Miglior Regia per Scorsese e Miglior Attore proprio Leo. Tutte nomination che non verrano premiate.
Dopo The Aviator Leo non è più solo il bello di Titanic, ma è anche uno dei più bravi giovani attori americani. La critica inizia a notarlo, e i meno radicali ammettono la sua bravura.
Nel 2006 escono due film che lo vedono protagonista, Blood Diamond – che a mio parere è uno dei suoi più belli – e The Departed, un thriller poliziesco di Scorsese, dove Leo recita al fianco di Jack Nicholson. Il film è vincitore di quattro premi Oscar: Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura non originale e Miglior Montaggio. Anche questa volta, niente Oscar per Leo.
Ormai Leo sembra un attore maturo, per lui non esistono ruoli difficili, spazia tra una commedia e un thriller con invidiante facilità, undici anni dopo Titanic infatti, ritrova Kate Winslet, in Revolutionary Road. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Richard Yates ed è diretto da Sam Mendes. In Italia il film non è andato benissimo.
Nel 2010 Leo ha in uscita due film: Shutter Island di Martin Scorsese, e Inception di Christopher Nolan, vincitore di quattro premi Oscar. In entrambi i film Leo mostra tutta la sua bravura, ma ancora una volta non soddisfa appieno la critica.
Tra i grandi registi con cui Leo ha avuto la fortuna di lavorare, non poteva che mancare Client Eastwood, che lo chiama in J.Edgar nel 2011. Il film racconta la carriera del direttore dell’FBI J. Edgar Hoover a partire dagli attentati anarchici nel 1919 fino al giorno della sua morte nel 1972, affronta anche la vita privata e la presunta omosessualità di Hoover. La critica – come al solito – si spacca, Roger Ebert scrive che il film è affascinante e magistrale, elogiando la prova di Leo definendolo un attore capace, dalle prestazioni sottili e suadenti.
Eccoci agli ultimi anni, dove Leo non ha per niente la voglia di battere la fiacca, anzi, aggiunge un altro genio delle regia al suo curriculum, nel 2012 infatti a scritturarlo è Quentin Tarantino, in DJango Unchained. Ultimo capolavoro del regista. Leo interpreta un ricco latifondista del Mississipi, e sfoggia una prova – l’ennesima – sontuosa.
L’ultimo – in ordine di uscita – film di Leo è The Great Gatsby, di Bazz Luhrmann – con cui aveva lavorato in Romeo e Giuletta. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald e Leo interpreta proprio Jay Gatsby, alla sua maniera, senza sbavature, con l’attenzione al dettaglio, che chi ha letto il romanzo ha apprezzato. Non molta apprezzata invece la regia e la fotografia, definita eccessiva, a tratti inverosimile, ma chi conosce lo stile di Buzz Luhrmann non si è scomposto più di tanto.
Leonardo DiCaprio il prossimo novembre compirà quarant’anni. E’ uno dei migliori attori di Hollywood, per longevità e performance, ha lavorato affianco di registi che hanno fatto la storia del cinema americano. Nella sua vita privata non si registrano scandali più o meno gravi, solo un’amore incondizionato verso le donne, e in particolare per le modelle. E’ stato definito una green star per l’impegno in campagne a salvaguardia dell’ambiente, guida solo macchine elettriche e chi lo conosce dice che è un bravo ragazzo, molto riservato che non ama la vita mondana.
Il 23 gennaio uscirà nelle nostre sale The wolf of Wall Street, prodotto e diretto da Martin Scorsese. L’ennesimo del regista che vede come protagonista Leo. Vestirà i panni di Jordan Belfort, uno dei broker di maggior successo nella storia di Wall Street. Il film è costato circa 100 milioni di dollari. Nel cast anche Jonah Hill e Matthew McConaughey. In Francia ha debuttato molto bene, ed è primo al botteghino. Chi lo ha visto dice che è un “film sopra le righe”, per le scene eccessive e le numerose parolacce. Già dai trailer si può notare un film che si vanta di essere gioioso e immorale, un fiume in piena in cui Leo sembra – come sempre – incarnare perfettamente la parte. Proprio per questo film, Leo è riuscito a guadagnarsi la nomination agli Oscar come Miglior attore. Che sia la volta buona? Lo scopriremo il prossimo 2 marzo.
Il cinema è per tutti. È per coloro che “sono vincolati da ore di dura fatica, dai minuti regolamentari di pausa e dalla precisione matematica del tempo, coloro la cui vita è regolata dal cent e dal dollar”. Così parlava il pioniere del montaggio cinematografico Sergej Ejsenstejn sulla funzione sociologica del cinema quale mezzo di consolazione e elevazione per l’uomo.
Al cinema si diventa tutti bambini ed è anche grazie al cinema che la “bestia” che c’è in noi rimane assopita.
Spesso la Storia ricorda i più famosi. Ma non è detto che i famosi siano i primi o i migliori.
Questa è la storia di Quirino Cristiani, il primo animatore, pioniere della tecnica più amata dai bambini (e non solo). Quirino nasce a Santa Giuletta in provincia di Pavia nel 1896, suo papà è messo comunale e sua mamma Adele bada alla casa e ai suoi quattro fratelli. All’età di quattro anni Quirino dice addio alla sua terra natia, suo padre ha perso il lavoro e l’unico modo di mantenere la famiglia è quello di trasferirsi in Argentina, sua seconda patria che lo ha eletto come uno dei vanti della Terra del tango. All’epoca Buenos Aires era già una città molto grande, moderna e industrializzata, era nel suo boom economico ed era la terra promessa di molti che con la valigia di cartone vi arrivarono e fecero fortuna. Già da adolescente Quirino dimostra grande passione per il disegno e frequenta così l’accademia di belle arti, scenario propizio per sviluppare il suo Humor sagace e picaresco.
A Benos Aires risiede un altro italiano: Federico Valle che già in passato lavorò con i fratelli Lumiere. Valle realizza documentari di attualità ma il suo più grande orgoglio è il notiziario: il primo “cinegiornale” che ogni giovedì esce nelle sale cinematografiche per informare e divertire gli spettatori. Valle è alla ricerca di un disegnatore per vignette satiriche che alleggeriscano la politica. Ed è qui che Quirino Cristiani inizia la sua luminosa carriera di vignettista prima e disegnatore di cartoni animati dopo. Il primo cortometraggio è realizzato su una terrazza alla luce del sole, muovendo i disegni davanti agli occhi elettronici della macchina da presa. Nasce “La intervenciòn” che racconta la venuta a Buenos Aires dell’allora presidente Irigoyen. La ricezione da parte del pubblico è entusiasta e Cristiani si mette all’opera per un altro suo lavoro “L’Apostòl”, il primo lungometraggio animato della Storia fatto di 58000 quadri (14 al secondo). Il successo è enorme e la pellicola rimane in cartellone per più di un anno.
Con l’avvento del Primo Conflitto Mondiale Cristiani lavora ad un opera satirica sulla situazione attuale ma questa viene confiscata e distrutta dal Ministero degli Affari Esteri. Cristiani non viene imprigionato ma perde moltissimo denaro. Ha già due figli e deve mantenerli, così si ricicla come disegnatore per piccole ed innocue vignette satiriche. I soldi non bastano a sfamare la famiglia così si improvvisa ambulante con una sorta di piccolo cinema pret a porter. Proietta Chaplin e molte pubblicità da lui stesso disegnate. Il cinema ambulante riunisce ogni giorno moltissima gente che si accalca e riempie sistematicamente le strade. Realizza “Peludopolis”, una presa in giro del rieletto presidente Irigoyen chiamato Peludo e della corruzione del suo partito. È il 1925 e questo è il primo lungometraggio animato con sonoro. Cristiani realizza altri piccoli cortometraggi animati come passatempo: uno di questi è il “Mono Relojero” (trad. la scimmietta orologiaio) una divertente gag ambientata in una gioielleria tra pendole e sveglie dai lunghi e sonnolenti baffi.
Questo è quello che accade a Quirino fino al 1941 anno in cui realizza il suo penultimo corto a tema calcistico. In quell’anno Walt Disney si trova in Argentina per il lancio della sua pellicola “Fantasia”, vuole conoscere Cristiani e rimane molto impressionato dalle sue animazioni. Gli propone un contratto nei suoi studios. Cristiani ammira Disney ma rifiuta: la sua attività è molto cresciuta ed è diventato uno dei migliori laboratori di Buenos Aires e non se la sente di lasciare tutto ancora una volta, e ricominciare ancora da zero negli Stati Uniti. Quirino, in quel periodo, lancia anche un corso per corrispondenza per insegnare la tecnica cinematografica e la realizzazione di cartoni animati.
Disgraziatamente due incendi uno nel ’57 e l’altro nel ’62 distruggono la maggior parte del suo lavoro. Molti originali, negativi delle sue pellicole pioniere nel cinema di animazione si perdono per sempre lasciandoci orfani di un lavoro così splendidamente realizzato.
Quirino muore il due agosto 1984 e solo dopo la sua morte l’Argentina inizia a rivalutare la sua opera. Oggi Quirino Cristiani è uno degli orgogli della Nazione. Non si scopre tutti i giorni di avere uno Walt Disney italiano che ha lavorato duramente per costruire i suoi studios e per poi essere tristemente dimenticato.
Quando siete stanchi del mondo che vi circonda e vi sembra che nulla possa essere come prima andate sul web a cercare i suoi lavori. Un sorriso strappato è più potente di ogni medicina.
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