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La voce e le cicale – Elisabetta Carbone

by Gianluigi Bodi
Elisabetta Carbone

È sempre molto piacevole imbattersi in un editore che non ho mai recensito soprattutto quando il libro con il quale fai la sua conoscenza è un libro come “La voce e le cicale” di Elisabetta Carbone. Si può parlare di una recensione che gira attorno al tema dell’esordio. Esordisce su questa pagine Prospero editore ed esordisce nel mondo delle lettere per la prima volta con un’opera tutta sua Elisabetta Carbone con un romanzo costruito con cura e che ha dalla sua una scorrevolezza data dalla sapiente alternanza tra dialoghi e descrizioni.

Quest’ultima caratterista l’ho apprezzata molto perché sembra proprio che il romanzo abbia un ritmo interno molto solido che non posso non mettere in relazione con il personaggio di Tamara e con uno dei temi su cui si basa l’opera e cioè la musica.
Tamara è la protagonista principale di questo romanzo, è un aspirante cantante lirica. Il padre, Giacomo è un importante maestro di canto dal carattere burbero e dai modi spicci e sbrigativi. E poi c’è Debora, un amica del padre che ha con lui un rapporto molto stretto. Si sono conosciuti da giovani in un periodo difficile e hanno creato un legame fortissimo. Giacomo pare quasi usarla come supporto psicologico. Quella di Tamara è una famiglia allargata, dopo la morte della madre Giacomo si è trovato un’altra donna e con lei ha un’altra figlia, Marta. Ma Giacomo è un uomo abituato a fare sempre ciò che vuole, senza dare troppa importanza alla volontà degli altri e ha anche un’innata capacità di riuscire sempre ad attrarre a sé qualcuno con il quale fare fronte comune “contro” Tamara.

Il tema della voce è centrale in tutta la narrazione. Da un lato potremmo dire che ognuno dei personaggi è alla ricerca della propria voce ma anche del coraggio e la tenacia di ascoltarla fino in fondo incuranti delle conseguenze. Dall’altro lato si tratta anche di fare arrivare agli altri la propria voce, di farsi ascoltare, di penetrare le difese degli altri facendo crollare muri. Tra tutti direi che l’emblema di quanto ho appena detto sia Tamara la quale desidera farsi ascoltare, comprendere dal padre. Forse nella speranza di un riavvicinamento.

Manara sente i piedi scaldarsi nelle scarpe nuove, una vescica gonfiarsi su ogni mignolo, una patina di sudore sulle guance. Suo padre si è messo la cravatta. Stasera è bello, come un uomo. «Papà, mi fanno male i piedi. Possiamo fermarci un attimo?».
«No, altrimenti arriveremo in ritardo».
Tamara raddoppia il passo, si asciuga le guance calde. «Se ci fosse la mamma, andresti più piano per forza».
Giacomo si volta di scatto, si ferma e abbassa lo sguardo su di lei: le sopracciglia si congiungono e sembrano più folte, il mento si contrae e sporge come un corno sotto la bocca. «Guai a te se tiri fuori tua madre». Abbassa la testa: adesso la sua faccia le è attaccata, con gli occhi giganti, vicini, crepati di vene sottili. «È chiaro?».

Interessante opera prima con una voce già ben caratterizzata e uno stile personale. I personaggi sono messi sul palcoscenico, vengono seguiti fin nel più piccolo movimento e il più piccolo sguardo. Quasi come se ci fosse una telecamera puntata su di loro che osserva il trascorrere del tempo sui loro corpi. E credo che questo romanzo prenda vita proprio nel movimento e nel silenzio dei personaggi, nei tre puntini di sospensione che a volte servono a sostituire ciò che non può essere detto pena il crollo dell’equilibrio.

Elisabetta Carbone è nata, vive e lavora a Bologna come insegnante di Lettere. Ha frequentato il laboratorio annuale di Bottega di narrazione e altri corsi di scrittura. I suoi L’uovo sodo e Pareidolia sono stati rispettivamente finalista e semifinalista al contest dedicato ai racconti del Premio Italo Calvino, altri sono apparsi su riviste letterarie e antologie.

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