Ivan Bogdanov

by senzaudio

Ivan “Il Terribile” Bogdanov. Probabilmente questo nome vi suona familiare, ne avrete sicuramente sentito parlare in questi ultimi giorni, ma può essere che già qualche anno fa il suo nome sia entrato nelle vostre case.
Ivan Bogdanov è stato, per una sera, la personificazione del male e di tutti gli stereotipi che vi possano venire in mente sui tifosi di calcio dell’est Europa.
Ma che ha fatto di tanto tremendo il buon Ivan? Il caro Ivan ha pensato bene di far sospendere una partita della Nazionale di calcio Italiana. Ora ve lo ricordate di sicuro chi è Ivan. E’ quell’uomo dall’invidiabile massa muscolare, con la t-shirt attillata recante un bel simbolo piratesco (teschio e ossa incrociate) e un passamontagna, che, vista la stagione, è sembrato a tutti quantomeno prematuro.
Ne hanno parlato tutti, a volte con cognizione di causa e molto spesso a sproposito e ne voglio parlare anche io.
Perché io quella sera c’ero.
Parto da quella che è quasi la fine della serata. Mentre uscivamo, dopo che lo speaker aveva definitivamente archiviato la partita, ho visto un bambino di circa sette anni in braccio al padre. Il bambino piangeva disperato, urlando: non è giusto! Mi dispiaceva per quel bambino perché so che ci teneva a vedere quella partita e lo sapete perché lo so? Perché il bambino che era in me stava piangendo quanto e di più di quel bambino, solo che non c’era nessuno a consolarmi.
Tenetelo bene a mente, ogni volta che una partita viene sospesa un bimbo piange, se viene sospesa per questioni atmosferiche non ci si può far nulla, è il destino, se viene sospesa per colpa dell’essere umano allora è un crimine. Far piangere un bambino per un atto di cattiveria e odio è un comportamento che ci fa regredire al livello di un lombrico (con tutto il rispetto per i lombrichi).

La serata era nata bene, io, un mio collega di lavoro e un amico svedese eravamo riusciti a comprare i biglietti e avevamo scoperto che a cento metri dal nostro albergo alloggiava la squadra Serba. Fa sempre un certo effetto vedere dei calciatori dal vivo perché fino a che non li incontri non ti rendi conto delle loro dimensioni. In TV mi sembrano tutti di statura media, poi scopri che sono degli armadi (non IKEA). Spinti dalla curiosità siamo andati a vedere la squadra serba che lasciava l’albergo. Poi ci siamo mossi verso la stazione per prendere la navetta che ci doveva portare allo stadio. E’ qui che c’è stato il primo segnale che non sarebbe stata una serata normale. Mentre aspettavamo che l’autobus partisse abbiamo sentito delle esplosioni e abbiamo visto della gente correre. Abbiamo pensato che fossero tifosi serbi che stavano festeggiano a suon di petardi la partenza della propria squadra. Sbagliato. Erano serbi, ma non tifosi, e non stavano festeggiando. Era una contestazione. Scoprimmo poi che il portiere serbo, sotto shock per l’attacco si era rifugiato nello spogliatoio della squadra italiana.
Scoprimmo pure che dal primo pomeriggio, per Genova, girava un gruppo di pseudo tifosi della nazionale Serba che si stava dando alla pazza gioia. Con il sennò di poi, se lo avessimo saputo, forse non ci saremmo nemmeno avvicinati allo stadio.
Eppure, arrivati a fatica allo stadio (c’era talmente tanto traffico da dover fare l’ultimo pezzo a piedi) abbiamo pure avuto tempo di berci una bella birra analcolica prima di renderci conto che qualcosa non andava. A quel punto, a metà birra, il tizio di cui sopra, l’inossidabile Ivan era già salito sopra alla rete di recinzione, l’aveva già aperta in due con una cesoia, un trinciapolli o qualcosa di simile e aveva già iniziato a buttare fumogeni sul campo e addosso ai tifosi italiani.
Di quella sera ricordo la banda. Poverini, fermi e immobili in mezzo al campo per interminabili minuti prima di sapere se dovevano a no suonare gli inni nazionali. Poi ricordo un tizio, in evidente stato di alterazione presumibilmente dovuto ad alcol e/o stupefacenti che durante l’inno Serbo ne ha dette di tutti i colori e che ha continuato anche durante l’inno di Mameli fino a che un vicino gli ha fatto notare che quello era il nostro.
Poi ci sono quei sei minuti di gioco che difficilmente ricorderò.
Mi è seccato tantissimo non vedere quella partita, e mi hanno dato fastidio pure le chiacchiere che ho sentito dopo, nei giorni successivi, su cosa avrebbero dovuto fare per evitare che si arrivasse alla sospensione della partita.
Ci sono cose che mi lasciano perplesso se ripenso a tutta la faccenda. Sembrava che ci fossero state delle avvisaglie da parte delle autorità serbe, ma pare non siano state ascoltate. Non mi stupisco. Non mi stupisco pure che qualcuno abbia pensato che una partita della nazionale fosse, per diritto divino, una partita sicura. Io l’ho pensato. Ho pensato: vado allo stadio con un amico svedese, gli faccio vedere una partita dell’Italia e magari torna a casa con un bel ricordo.
Ma la cosa che più mi turba in assoluto di quella serata è un’altra. Quello che mi turba al punto da farmi incazzare è che non mi hanno perquisito. Non mi hanno nemmeno degnato di uno sguardo. A me e ai miei due amici è stato strappato il biglietto, è stata data una bandiera italiana dono dello sponsor e basta. Se avessimo portato dentro un paio di chili di tritolo non avremmo avuto problemi.
C’erano dei ragazzini a controllare gli ingressi e forse qualche carabiniere che però non ho visto. Le autorità competenti avranno pensato bene, visti i tafferugli del pomeriggio, di mandare più forze dell’ordine all’entrata adibita ai serbi, ma altrove c’erano comunque dei ragazzini.
Non lo so, ma pensare che in un ambiente così a rischio come il calcio il controllo ai cancelli venga affidato a dei ragazzini mi sembra poco lungimirante.
E poi uscendo, il bambino che piangeva. Io ogni tanto a quel bambino ci penso e spero per lui che da allora abbia avuto modo di rimediare a quella delusione.
Nel frattempo in Serbia scarcerano Ivan Bogdanov che era dentro per questioni non relative alla notte di Genova 2010, ma per un aggressione precedente. Per la cronaca, per aver rovinato a tutti una serata piacevole, Ivan è stato condannato a non tornare più in Italia per cinque anni.
Pensate a quanto ci deve essere rimasto male, magari ha pianto. O magari no.

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