Home Guests Frigorifero mon amour

Felice è infelice e prende un sacco di pilloloni alla ricerca della felicità. Ma le cose – si sa – non vanno mai per come dovrebbero andare. La vita moderna è una pressa che odora di cacca e ti costringe ad aprire un finanziamento al mese, ti costringe ad andare dal dentista, ti costringe a vivere in una società che si autodefinisce civile e nella quale se si rompe la macchina devi aprire un mutuo perché gli stipendi dei cari sottoposti sono sempre più schiacciati sulla sopravvivenza allo stato ferino. In specie se sei costretto a lavorare come uno dei tanti schiavi 2.0 a (finta) partita IVA. Per fortuna che c’è la famiglia, però. Le due bimbe che ti svegliano la notte, Felice, con domande tipo: “Papo, è più forte Hulk o la Cosa?” E meno male che c’è tua moglie, se non fosse per la sua tresca con la lavabiancheria. Ma è solo quando il frigorifero frustrato, represso, calpestato si sarà dato alla macchia, che le cose si faranno davvero complicate per il nostro eroe.

Mi sono accostato a Frigorifero mon amour di Andrea Serra, pubblicato da Miraggi, con il cuore stracolmo di agitazione. Le aspettative erano tantissime. C’è poco da dire, qui ho da esser chiaro con l’autore: caro Andrea Serra, dopo aver letto i tuoi post sui social, da questo tuo primo romanzo mi aspettavo risate a crepapelle. Non volevo sorridere a denti stretti o ridacchiare. E no, a me non la si fa. Non scambierò più o meno capziosamente, più o meno ingenuamente il gioco di parole per la comicità, il sorrisino per il gran divertimento, il motto di spirito per un rave party così come si usa negli ambienti raffinati o frequentati da tardoadolescenti barricaderi. Anche perché ho le prove, noi tutti che giriamo per i social le abbiamo, lo abbiamo visto su internèt: Andrea Serra è bravissimo, Andrea Serra è un geniaccio, Andrea Serra facce ride’!!

Attenzione, però, lo sappiamo tutti che: a) la comicità in letteratura è vista come sinonimo di bruttura, nefandezza, nequizia, alito cattivo, calzette sporche, lato oscuro della forza e soprattutto disimpegno, sia nei sopra citati ambienti raffinati sia in quelli frequentati da tardoadolescenti barricaderi; b) se vuoi spaccare nel mondo delle belle lettere devi trovare o un irrisolvibile, atavico problema sociale o un lancinante problema personale che puzzi di vita vissuta lontano un miglio e poi scriverci su in prima persona con cuore palpitante oppure ancora mischiare le due cose; c) infine, sappiamo pure che l’unica alternativa pensabile e praticabile a quella di indossare il cilicio, in Italia, è scrivere un giallo. E così parte subito la crisi depressiva acuta e mortale. Ma poco prima di ululare alla luna, passarmi un dito d’olio motore sotto gli occhi come in Commando e legarmi al collo un sasso di cinquanta chili per poi buttarmi nel fiume Anapo con una copia di Comma 22 di Joseph Heller sotto il braccio, mi rendo conto che non ne vale la pena. L’adolescenza è finita da un pezzo. E con essa tutte le infinite, deprimenti, ridicole discussioni su cosa sia più o meno degno dell’aggettivo “letterario”.

E perciò amen, così è: Frigorifero mon amour di Andrea Serra è un esordio strepitoso che mi ha fatto ridere di gusto grazie al suo umorismo iperrealistico degno di un Paolo Villaggio, che è stato un grandissimo, immenso scrittore – e lo dico per sopire i più giovani, sui cui volti posso già immaginare dipingersi sacri ma astratti furori. E se pensate che voi nobili spirti adusi a frequentar le muse il parnaso e l’accademia non potrete mai degnarvi a cotal bassezze per vellicare i vostri istinti più triviali, dediti come siete solo alla cogitazione sui massimi sistemi et su li problemi che affliggono la derelitta società moderna, ebbene siete subito serviti: se compretete questo libro, oltre a scoprire un autore geniale, e a sganasciarvi dalle risate, farete pure beneficenza, perché parte dei proventi andranno al banco alimentare del Piemonte, ad aiutare concretamente quelli che non ce la fanno. Insomma, se salirete anche voi su quest’ottovolante sono sicuro che non ve ne pentirete. La disavventure del signor Felice, l’uomo che ha smarrito il frigorifero, e della sua famiglia sempre alle prese con mutui, dentisti e finanziarie sono degne eredi delle imprese fantozziane. Con una sola differenza, che è un po’ il segno dei tempi: diversamente da Fantozzi, il signor Felice è costretto a lavorare a partita IVA. E se abbiamo passato anni a sfottere quello sfigato del ragionier Ugo, la verità è che oggi molte persone si farebbero segare una chiappa pur di avere il suo stesso contratto di lavoro.

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