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L’uomo che creò il tempo di Ivano Porpora – Un racconto.

by senzaudio
Ivano Porpora, racconto,

Secondo papà, le nuvole le aveva inventate lui. Si sedeva sulla sponda del letto dopo aver rassettato le coperte di Benedetta, lei stava sopra, io sotto; lui aveva gambe piccoline e segnate da botte che non so come avesse preso. Le dava una carezza che durava qualche secondo; mi diceva che se volevo riuscire nella vita dovevo essere come lui, che aveva inventato le nuvole.

“Come, tu?”

“Io”, diceva; non aggiungeva altro. Aveva il viso rovinato da antiche piaghe, faceva una smorfia che doveva sembrare un sorriso, poi andandosene chiudeva la porta; se gli dicevo che avevo paura del buio mi diceva di finirla. Benedetta aspettava qualche secondo che i passi di lui si facessero distanti e cominciava a parlarmi, mi diceva che aveva il marchese, mi diceva di chi era innamorata, inventava giochi di parole per me. Io non sapevo cosa fosse il marchese, quei nomi tutti milanesi non avevano fisionomie, ma ascoltavo tutto; quando diceva che in centro c’era una piazza da pazzia, che a un suo compagno di liceo era venuto il gomito, ridevo tenendomi le lenzuola contro la bocca finché non mi diceva: Dormi o mordi, Alan. 

Tutte le volte che finalmente chiudevo gli occhi pensavo a quello che mi aveva detto papà, a come si fabbricasse una nuvola; me l’immaginavo in cima a una scala di legno intento a ritoccarle, dare loro ogni volta strutture differenti, colorarle con soffici pennellate viola o indaco o gialle, arancio; lasciarle scivolare fuori dalla finestra sospinte dal ventilatore. Non che credessi a quello che diceva. Però poi, di giorno, mentre gli altri giocavano a calcio, mi mettevo a fissarle dalla panca; tutte avevano una loro conformazione sensata, ora erano un coniglio, ora una testa di cavallo, una ceneriera. Mi incantavo sulle transizioni, il coniglio s’era svolto e la ceneriera ancora non lasciava alcun pennacchio che la rendesse decifrabile; poi mi chiamavano a giocare e dimenticavo tutto.

Faceva l’infermiere in un ospedale che adesso non c’è più, ora è una lungodegenza nella quale i vecchi vanno a morire, lo sanno, è una specie di lazzaretto del paese: quando si dice che una persona è andata al Centro Sole è come dire che è pronta a farsi da parte, non è morta ma come morta, sta in una sorta di limbo dal quale i parenti fingeranno di estrarla andandola a trovare una volta al mese, due se c’è Pasqua, il compleanno o ai morti, tre nei giorni di dicembre. Ma allora era un ospedale a due piani imbragato da strutture che servivano a tenerlo in piedi, sull’entrata principale c’erano il simbolo del fascio e il bastone di Esculapio, vicini. Alcuni dottori erano stati sepolti lì, in piccole nicchie dentro al muro; sopra le loro foto, all’ingresso, stava la scritta Nunc dimittis homine. L’ospedale era piastrellato in un irregolare rosso spento sul quale le lettighe sbandavano o s’incagliavano, gli ascensori salivano lentissimi; al pronto soccorso passava spesso don Eugenio e diceva: Ma cos’è successo?, prima di andarsene spandeva acqua sui crani lì intorno dopo aver svitato la coroncina della madonna. Una volta giocando a calcio caddi a terra e il braccio si torse all’indietro, sentii crac!, l’avversario era Morini, un ciccione sempre sudato; mi cadde addosso, un altro crac! più fondo; quando mi portarono a casa papà si fece raccontare cosa fosse successo, mi diede due ceffoni, uno e due, disse: Aspetta, andò a recuperare il badge per parcheggiare nell’area dipendenti; a mamma disse che sennò era tutto a pagamento; mi portò lui stesso dall’ortopedico. Gli disse: “È mio figlio”, come se fosse una minaccia; l’ortopedico lo sapeva bene.

Un’altra volta mi operarono di appendicite, mi lasciarono quel piccolo feto smorto sul comodino; sempre assetato, mi torcevo di lato per non guardarlo. Benedetta venne a trovarmi, lo alzò sulla testa, lo guardò in controluce. “Te lo vuoi portare a casa?” le dissi; “No, no” rispose pensosa, lo appoggiò di nuovo sul comodino; se ne andò. Lui mi veniva a trovare al letto non appena una pausa glielo concedesse, nel caso se le prendeva; era vestito con un camice verde acqua, ogni tanto andava a fumare in corridoio, aprendo la finestra; poi tornava, svitava le spondine, mi si sedeva accanto. “Mi hanno detto che hai le transaminasi basse”, diceva; si rinchiudeva in silenzi lunghissimi. Poi parlava di Boniek; gli piaceva Boniek. Veniva e mi raccontava della Juve, io gli rispondevo del Milan. Juve e Milan, Juve e Milan, quello era il nostro dialogo. Per me papà era come uno di quegli oggetti che non sai mai come ti siano capitati in casa, e forse proprio per quello te li porti dietro, trasloco per trasloco; se dovessi muovermi di qui ora, per dire, di sicuro porterei con me il vecchio pettine della Bilboa, il gatto, il portatile, una vecchia foto in cui ci siamo lui, io, Benedetta, un altro ragazzino che conoscemmo a Tropea e che non ricordo di chi fosse amico, se mio, se di lei. Lei ha gli occhi rossi, sembra spiritata; io avrò sei o sette anni, sono abbronzato, ho la riga da un lato, la maglietta de I Quindici.

Un giorno, lui era al lavoro, tornando da scuola trovammo in soggiorno due valigie. Mamma era in camera. Chiamò Benedetta, le disse: Tieni: io te li passo, tu li pieghi. Io mi nascosi sotto il letto: non volevo far parte della catena di smontaggio della famiglia. Quando ebbero finito mi chiamò, ci disse: Vado; mi prese per le spalle, mi disse: Tu capisci perché me ne vado, vero?, io feci no, mi disse: Guardami in faccia, io feci no. Mi diede un bacio sulla fronte, poi ci consegnò una lettera da fargli trovare, ma dopo tre giorni, disse. La lettera, ci mettemmo due pomeriggi a capire dove lasciargliela. Alla fine la posizionammo in dispensa, sopra lo zucchero; quando lui la trovò la buttò senza leggere.

Le abitudini non cambiarono troppo in casa. Benedetta doveva preparare la colazione per entrambi, ognuno si rifaceva il proprio letto; lui dormiva sempre a destra, il comodino vuoto, la Bibbia di mamma rimase sempre dall’altra parte ma coperta dalla polvere che giorno dopo giorno si accumulava. Ogni tanto si chiudeva in garage, faceva esperimenti con il legno che non portavano da nessuna parte. Diceva che confezionava nuvole, ma quando entravo c’era un asse sul quale aveva piantato ventuno chiodi, o un pezzo di legno segato in modo disarticolato.

Poi il suo equilibrio iniziò a sgretolarsi. Cambiò forma, con lentezza. Un giorno era lui, un giorno – e non avresti mai capito quale fosse il limitare, potevi solo intuire il progressivo sbandamento – era un qualcosa di lievemente trasformato da lui, la stessa faccia rovinata dall’acne, lo stesso taglio di capelli, corto dietro e quasi a spazzola per quanto il disordine naturale lo permettesse. Lo chiamavi e non ti rispondeva, per esempio; guardava il cielo e non diceva nulla, per esempio. Non si cambiava dal lavoro, restando in camice verde anche per casa. Si sedeva a leggere libri che trovava in giro, ma girava le pagine troppo velocemente per essere credibile, oppure restava per decine di minuti su una singola facciata, osservandola come se lì fosse la verità: bastava cercare. Poi restava assorto, se ne usciva con frasi tipo: “Non ci siamo”, oppure “È questo che intendeva”.

A volte avevo la sensazione che parlasse di mamma; a volte che fossero concetti più generali, non per questo meno assurdi. Tornava a guardare il cielo, poi; ci chiamava, ci diceva che aveva inventato pure quelle nuvole. Ma noi eravamo cresciuti, il tempo cambia improvvisamente marcia, gli dai meno peso; non gli credevamo più, ma iniziavo a credere che lui, invece, a quella cosa credesse davvero.

Iniziò a chiamarci fuori, di notte. Io e Benedetta dormivamo; papà entrava in camera, ci toglieva le coperte di dosso, diceva: Forza, forza!; avevamo meno di un minuto per buttarci qualcosa addosso, uscire dalla finestra che dava sul cortile, Benedetta usciva sempre per seconda coprendosi con uno scialle che era stato di mamma, diceva che io ero avvantaggiato dal fatto che stavo sotto. Papà a quel punto lo vedevamo sbucare dall’atrio con un fucile puntato su un nemico immaginario; spalancava la porta di colpo, PUM!, diceva, e poi lo faceva tre volte, mirando tre diversi bersagli, PUM!, PUM!, PUM! I vicini avevano imparato a non dire più nulla, dopo che i loro animali domestici non si erano più trovati, o avevano avuto incidenti che li costringevano a muoversi con tre zampe; non si sporgevano nemmeno più dalla finestra, anche se percepivi la presenza di ottomila occhi a studiarci. Lui stava lì, fermo sulla veranda, ad annusare l’aria; veniva da me, diceva: Lì, non qui, lì; bestemmiava, mi dava uno schiaffo in testa. Poi diceva, dopo essersi guardato per l’ennesima volta intorno, al pulviscolo rifratto dalla galaverna: Bravi, andiamo in casa, li abbiamo fregati. Non specificò mai chi ci avrebbe dovuto fregare, a chi sparava; ma so che quando tornavamo in casa mi sentivo rincuorato, Benedetta appoggiava lo scialle al letto, diceva: Testa di cazzo; ci addormentavamo ancora intirizziti a piedi e mani mentre la luce di fuori entrava con insolita lentezza.

Poi un giorno, quando tornai a casa da scuola, li vidi distanti. Lui non parlava, lei non parlava; lei smise di preparargli i pasti quando rientrava, a volte discutevano mentre io non c’ero, ma se mi sentivano arrivare smettevano, lei si chiudeva in camera.

“A volte fai degli errori” mi disse lui, mentre leggeva; quella frase s’inserì tra le sue preferite. Non seppi mai cosa fosse successo, ma improvvisamente compresi che qualcosa si era rovesciato e che, tra loro, l’essere potente non sarebbe più stato lui. Quella percezione cambiò la vita, credo, più a me che a loro. Smettemmo di uscire di notte; in compenso lo vidi addobbare il tiglio in cortile di bambole che ballavano al vento, le legò con fili di rafia ai rami.

“Ci proteggeranno”, disse. Le guardava, guardava le nuvole; credo che fossero le une il rimpallo terreno delle altre.

Quando sono cresciuto ho iniziato ad accorgermi che per me il mondo era sempre di poco sbagliato. Come quelle mensole che tiri su e che per un caso o per l’altro, magari perché hai fatto un buco troppo largo nel muro e il chiodo ci balla dentro, non sono mai perfettamente a bolla; e te ne accorgi solo quando trovi qualcosa di fragile a terra.

Spesso sei tu; sempre, ciò che ami.

Mi sono accorto anche di un’altra cosa. Che l’amore, l’amore che provo per Vanessa – un amore inutile e ottundente, lei è spesso via, ogni tanto mi chiama e dice: Dormo a casa, come se avessimo fatto un reale patto per il quale questa è casa sua; ma io tacendo l’ho accettato, la vedo arrivare da lontano, l’aspetto appoggiato alla siepe ed entriamo in casa insieme, il caffè è sul fuoco –, come qualsiasi altro amore che ho provato, è la creazione di un qualcosa. Un qualcosa di innervato che spande luce da una parte e buio dall’altra, come una lanterna che t’illumina e ti getta larghi tratti di nero addosso. Ed è anche l’esplosione creatrice di un qualcosa. Se quando ami non crei un mondo, non è amore; se non crei un vuoto, non è amore. E quel mondo che si crea non è necessariamente un mondo che ti andrà bene nella sua totalità; ma lo accetti muto, non è una questione di dare e avere, forse è una questione di dovere, non ci ho ancora pensato abbastanza ma ne sono pressoché sicuro.

Allora, quando ho realizzato quella cosa della lanterna, mi sono chiesto come fossero fatti tutti quanti gli altri amori della mia vita, incluso quello con mamma – sono anni che non abbiamo notizie di lei, non credo la cercherò mai più; incluso quello con lui, che è stato amore primigenio, quello che mi ha portato a creare in ogni storia il mio albero di bambole, le mie fughe notturne; persino le sberle che ho dato convinto che fossero il veicolo di una protezione, come a dire: Non osare mai più mettere a rischio la persona che amo.

Tipo.

Benedetta, quando fu il momento, se ne andò anche lei; non tornò più da lui, lui non fece che ripetere: A volte fai degli errori. Poi guardava le bambole; s’incupiva, credo che non accettasse il fatto che la famiglia si fosse squarciata nonostante loro.

Quando si è ammalato ho preso un’aspettativa dal lavoro, passavo i pomeriggi con lui all’ospedale; ogni tanto andavo fuori a fumare, se gli infermieri mi beccavano all’inizio se la prendevano, poi uscivano con me, mi dicevano: Dammene una; fermavano la porta, ci mettevamo a guardare le lepri nel prato, una volta ne contammo quindici. Al giorno uno lui si faceva di adriblastina, ciclofosfamide, vincristina, prednisone; poi gli altri quattro giorni di ogni ciclo gli faceva compagnia il solo nostro amico prednisone.

La prima volta fece tutto il ciclo. Perse capelli e ventuno chili; gli andai a comprare dei vestiti di nascosto, braghe di tela che potesse stringere con il solo laccio. Insisteva per metterne di diverse taglie più grandi, voleva che gli stringessi la cintura facendo nuovi buchi col coltello; un giorno finalmente si arrese, disse “Fa’ come vuoi”.

La seconda volta fece tutto il ciclo, riperse i capelli che gli erano cresciuti come sottile peluria; aveva riguadagnato nove chili, ne lasciò giù quindici.

La terza volta mi disse: Basta. Era diventato una maschera di trentasette chilogrammi, la pelle era verde, le vene del braccio bruciate. Sembrava un uccello morente nel nido, i capelli erano penne che non sarebbero più spuntate finché non fosse finalmente morto. Aveva gli occhi infossati, la bocca semiaperta; diceva: Ho sete, diceva che gli sembrava di bruciare.

“Hai il numero di Benedetta?” mi chiese un giorno, pensavo stesse dormendo.

“Cosa?”

“Il numero di Benedetta”.

“No. Ho quello vecchio, se vuoi proviamo”.

Non disse nulla; poi credo si addormentò, era difficile capirlo.

Quando andai via di lì passai per casa sua. Avevo una vecchia Lantra, sporca e grigia. Restai fuori a osservare il giardino; una lieve pioggia iniziò a bagnarne la terra, mischiare il fango che copriva il parabrezza. Entrai in casa prendendo la chiave dalla fioriera accanto all’ingresso, presi nel cassetto della cucina il coltello più largo; tornai in cortile, strappai dal tiglio tutti i fili di rafia, uno a uno, lasciando le bambole a terra. Restavano le parti di filo ancora legate all’albero, ballavano al vento, brillavano alla pioggia; un vicino mi guardò dalla finestra, non disse niente, poi alzò una mano. 

Il cane di quel vicino, papà l’aveva fatto azzoppare a me.

L’ultima volta che parlammo vorrei avergli detto cose importanti. Sapevo che era l’ultima volta, quando sei in certe condizioni tutte le volte che parli con una persona non è che potrebbe essere l’ultima, la è di fatto; e se poi ce n’è un’ultimissima, un’ultimissimissima, un’ultima davvero, come nei capricci dei bambini, le accetti come piccoli doni tutte, ultima, ultimissima, ultimissimissima. Non cambiano nella sostanza.

Si giocava di lì a poco la supercoppa, erano Juve contro Milan. Lui mi chiese chi giocasse in difesa, gli risposi; chiese se Rui Costa giocava, gli risposi. “È buono, Rui Costa”, disse.

“Sì”.

“Però Nedved è meglio”.

“Hanno ruoli diversi”.

“Sono mezze punte”.

“Nedved sta un po’ più indietro”.

“…Hai il numero di Benedetta?”

“Ho quello vecchio”.

Tacque un po’, poi mi chiese di spostarlo. Il suo corpo era di un peso inaudito; le ferite mal suppurate lasciavano scie gialle sulle lenzuola.

Iniziò a respirare male, poi chiuse gli occhi; io mi fissai sulle sacche che aveva attaccate al corpo, alcune erano lì per svuotarsi, altre per riempirsi, ma non mi pareva che avesse più alcun senso né l’una né l’altra funzione.

Due ore dopo morì. Quando vidi che il macchinario segnava che il battito si spegneva non chiamai nessuno; rimasi a fissarlo mentre arrivavano, mi spostavano, qualcuno disse: Chiamate Ronchi, è in visita. Mi trovai in corridoio senza accorgermene; le piastrelle sbucavano fuori a sconnettere il tessuto di quella bestia vecchia e traspirante, mi appoggiai alla parete, fuori c’era caldo. Presi dalla tasca il cellulare che Vanessa mi aveva regalato qualche giorno prima, aveva detto: Così mi chiami, se serve. Era un Motorola nero, lo schermo verde. Chiusi gli occhi; c’era un inaudito silenzio dentro di me, un silenzio che non c’era mai stato, che svelse tutto.

Scorsi la rubrica, trovai il numero di Benedetta Arisi; le scrissi un sms veloce:

“L’uovo è sulla luna”.

Sono sicuro che capì.

Quando papà morì guardai le nuvole; mi sembrava che avessero una forma imprecisa, una forma che non stavo capendo, ma per la prima volta mi parve stesse per preannunciare un disegno chiaro.

Ivano Porpora è nato e vive provvisoriamente a Viadana, in provincia di Mantova. Ha un carattere un po’ così. Scrive romanzi, fiabe, racconti, anche se su Internet non ci credono.

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