William, la storia di chi resta

by senzaudio

“Che farai l’anno prossimo?”
“Ingegneria informatica e biomedica.”
“Bologna? Milano? Padova? Roma?”
“No, Catanzaro”.
“Ah.”

Breve dialogo, quello tra William ed Erika, ma di illuminante significato.
Poco si prospetta, secondo questa, per il nostro Willi, visto che ha scelto un’università del Sud.
E’ cosa risaputa che gli atenei migliori si trovano al Nord, che questi forniscono agli studenti una preparazione migliore, che il livello di difficoltà degli esami sostenuti nel meridione è più basso e che, sempre in quest’area geografica, sono soliti “regalare” lauree, che, di conseguenza hanno un valore minore rispetto a quelle conseguite nel resto d’Italia.

Logica tesi, questa, suffragata anche da esempi pratici, secondo il punto di vista di taluno.
Questi, per sostenere ad esempio la tesi dell’ignoranza della Gelmini, si pone la seguente domanda: “Come mai ha sostenuto l’esame di Stato per la professione di avvocato presso la Corte d’ Appello di Reggio Calabria, dopo aver studiato e conseguito la laurea al Nord?”. Questo qualcuno si risponde prontamente che la sua è stata una ‘furbata’, visto che a Brescia circa il 20% dei laureati passa l’esame di stato, mentre a Reggio Calabria la percentuale sale al 95. Probabilmente, seguendo questa ipotesi, il nostro ex ministro credeva che laurearsi al Sud fosse più facile.
Avrà, chi sostiene questo, ragione? Fatto sta che per giustificare la scarsa competenza di un soggetto, si attribuisce meno valore ai titoli da esso posseduti, squalificando un’istituzione, talvolta per via della sua collocazione geografica.

E quando Willi risponde ad Erika che gli sembra stupido spostarsi fuori sede visto che anche al Sud possono esserci facoltà valide, questa replica che la sua scelta suona come un ripiego.
Eppure William tiene fortissimamente alla sua terra, non la abbandonerebbe per nessun motivo.Per lui andarsene sarebbe come tradirla.
Di scarsa rilevanza mediatica nazionale è stato, ad esempio, il fatto che un importante studio scientifico di un’equipe guidata da un catanzarese potrebbe portare giovamento alle terapie anti oncologiche.
A mio parere non è necessario sottolineare l’essere catanzarese di questo ricercatore.
Lo diventa, tuttavia,  qualora questa stessa caratterista secondaria diviene elemento fondante per la discriminazione di un operatore di call center che si trasferisce al Nord e che ha un accento da ‘terrone’.

Se, sulla scia di questa riflessione, ci spostiamo in ambito politico, ci troviamo dinnanzi al Carroccio, che si qualifica come un partito regionalista ed etnonazionalista e che non ha mai smesso di tutelare gli interessi dell’Italia settentrionale, per la quale richiede maggiore autonomia proponendo il federalismo, politico e fiscale o addirittura avanzando proposte di secessione.
E queste posizioni, proprie di un partito, accusato di xenofobia e razzismo, non smettono di ottenere consensi, visto che, sempre secondo questo particolarissimo modo di vedere le cose, è il Nord a trainare il Sud, che il PIL italiano è retto dal Nord e che gli abitanti del meridione sono giudicati come fatalisti.

Giulio, vent’anni, lo precisa: “Non vuole essere razzista, ma la maggior parte dei meridionali pensa che tutto debba venire dall’alto, difficilmente si rimbocca le maniche..”
Ed è proprio a questo punto preliminare che dovrebbe suonar all’impazzata dentro ognuno il campanello d’allarme. Non occorre aggiunger altro per definire questa espressione razzista.
La sua componente razziale è insita nella premessa, più che nella conclusione dell’asserzione di Giulio.
“Io non sono razzista, però..” è l’espressione strumento per giustificare le peggiori intolleranze.

In ogni caso, l’adozione di un modo unilaterale di esporre i fatti non è giusta.
Affianco a questi casi ci sono quelli di chi ha vissuto esperienze diverse: c’è la storia di chi è stato ben accolto al Nord  e quindi ritiene sia sbagliato addirittura chiedersi perché si discrimini, poiché alla base non vede nessuna discriminazione.

Bisogna precisare che la relazione filtrata da stereotipi non parte unicamente dal Nord verso il Sud, ma segue anche la relazione inversa.

E non è sufficiente neppure Rocco Hunt, con la sua affermazione-provocazione “Quando ti parleranno male del mio sud, tu rinnega tutto e falli scendere qua giù”, perché il Sud non è solo mare, paesaggi e gente alla mano, così come il Nord non è solo produttività, efficienza ed individui freddi e riservati.
Neppure le immagini folklorizzanti dei vari film su questo tema, quali “Benvenuti al Sud”, “Benvenuti al Nord”, sono da considerarsi rappresentativi di queste realtà , nonostante l’indubbia comicità ad essi intrinseca.
Ove il senso d’appartenenza a un contesto, a un’ideale, a una semplice squadra, diviene sintomo di auto limitazione, reclusione, chiusura, ecco il principio di un soffocar sordo, senza via d’uscita.
Genere, età, modo di vestirsi, status sociale, accento, non sono altro che pretesti comuni per attaccare la diversità e quindi fortificare il proprio way of thinking, la propria identità, il proprio senso di sé, in quella che potrebbe, al contrario, essere uno scambio volto ad arricchire reciprocamente l’uno e l’altro.
Quelle che si pongono tra sé ed il diverso non sono altro che barriere mobili e relative, costruite anche grazie al linguaggio che, nell’esplicitarsi, categorizza.
Cos’è la Campania rispetto all’Italia? E l’Italia rispetto all’Europa? E l’uomo innanzi all’Umanità?
Si guardi dal giudicare, chi non vuol esser giudicato e guardi al di là del proprio naso chi non vuol esser guardato nel suo essere misero rispetto a ciò che, essendo più grande rispetto a lui, lo supera.
Nell’incessante divenire storico, definizioni, concetti e considerazioni sono imprescindibilmente soggetti al cambiamento perché la storia è scritta dalle penne tenute in mano dai singoli, da corpi che percorrono vie che, scoperte per caso, una volta intraprese cambiano la morfologia dei destini comunitari.
E mentre attraverso un processo di incorporazione introiettiamo in noi un ordine sociale che finisce con l’assumere le vesti della naturalità, ci sembra ovvio concepire il nostro modo di vedere le cose come l’unico possibile.
Ma da cosa nasce questo bisogno di trovare differenze tra sé e gli altri se non dalla paura del diverso, di ciò che è nuovo?
E cosa sta alla base di questo meccanismo se non l’ignoranza che genera rifiuto a priori e superficialità nel giudizio?
Non è necessario sentirsi obbligati ad esaltare il proprio opponendovi l’altro, che deve di conseguenza risultare necessariamente peggiore per farci salire sul podio e stravincere su chiunque non sia come noi.

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