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William Finnegan – Giorni Selvaggi. Affrontiamo le onde.

by Gianluigi Bodi
Giorni Selvaggi, William Finnegan, 66thand2nd,

Quando e dove leggere “Giorni Selvaggi” di William Finnegan?

Nei piani originari avevo deciso di leggere “Giorni Selvaggi” di William Finnegan durante l’estate. Poi, come tutte le volte che faccio un piano, qualcosa va storto. Questa volta a creare un disequilibrio nella forza c’ha pensato una pila di libri che ha sfondato lo scatolone che uso come comodino. Ora, non potrò mai sapere cosa avrebbe comportato la lettura estiva di questo libro, probabilmente, una buona dose di invidia. So però di sicuro, che leggere “Giorni Selvaggi” in coda all’estate, quando iniziano ad arrivare quelle giornate di pioggia che ti abbattono l’umore, aiuta a ritrovare dentro di sé una parte di quel tepore estivo che sta già sparendo.  Sul dove leggere questo libro immagino ci saranno varie scuole di pensiero. La mia opinione è questa. Sul divano, da una posizione che vi permetta di vedere scorrere la pioggia e vedere la gente che si precipita in casa tutta bagnata.

Una recensione di cui non si sentiva la necessità e che tuttavia c’è.

Diciamoci la verità. Questo libro non ha bisogno delle mai recensione. Se andate a dare un’occhiata sul sito di 66thand2nd ci sono decine di recensioni, tutte positive,  la maggior parte entusiaste. I librai che conosco lo hanno adorato e ne hanno vendute un sacco di copie. E’ un libro che ha avuto un successo strepitoso, anche le presentazioni con William Finnegan sono state un successo. Io però ho bisogno di dire la mia. Altrimenti non dormo.

Accolgo sempre con una malcelata inquietudine i libri al di sopra di un certo numero di pagine. E’ un problema mio. Non è un giudizio di qualità. So che tipo di lettore sono, so che sono schizofrenico, che salto da una parte all’altra e che se mi fermo su un libro per più di una settimana inizio a diventare insofferente. La soluzione sarebbe quella di leggere qualsiasi opera in meno di una settimana, purtroppo non sempre mi è possibile.
A volte però, solo a volte, il libro è talmente tanto bello e coinvolgente che perde di peso, diventa leggero e le pagine volano.

Un piccolo dubbio.

Mi sono chiesto fin da subito che tipo di approccio avrebbe avuto un lettore italiano, diciamo medio, nei confronti del surf. Uno sport che è poco praticato e che ha delle mitologie che sono impiantate in luoghi ben più paradisiaci. Mi vien da pensare che alla parola surf, la prima immagine che occorre è un’immagine cinematografica (non credo serva specificare quale). Eppure io, lettore medio, non ho avuto nessuna difficoltà a leggere “Giorni Selvaggi”, pur dovendomi destreggiare con una terminologia tanto lontana quando esotica. Finnegan però è perfetto nella sottile arte dell’equilibrio. Come se scrivesse come surfa e mano a mano che procediamo con la lettura, non solo quei termini tecnici ci diventano familiari, ma iniziamo anche a “vederli” con i nostri occhi.

Fuggiamo dunque lontani da quelle immagine idilliche che ci mostrano surfisti abbronzati cavalcare le onde tutti in pace e armonia. La lotta alle onde è spietata. La lotta alle onde ha delle regole, una dose di bon ton che a noi comuni mortali sfugge. L’approccio alle onde è poi, soprattutto, rispetto. Conoscenza dei propri limiti. L’arroganza può essere punita con un tuffo in mezzo alla barriera corallina, tuffo che non ha nulla di piacevole. Il surf diventa quindi una disciplina quasi spirituale. Una pratica formativa del corpo e dello spirito.

Un memoir da pulitzer.

Sono certo che lo saprete già. “Giorni selvaggi” di William Finnegan ha vinto il prestigioso premio Pulitzer. Il genere che più lo rappresenta è quello del memoir autobiografico. Il fatto che un libro di questa mole e con un argomento così di nicchia abbia vinto un premio così prestigioso rende ancora di più onore alla scrittura di Finnegan.
Una scrittura precisa e amante dei dettagli. Uno stile che fa dell’onestà e della chiarezza il suo miglior pregio. Non c’è nulla di più fastidioso che sentire qualcuno parlare del proprio ambito con fare saccente e con l’utilizzo di una microlingua che, lungi dal voler comunicare qualcosa di definito, ha come unico scopo quello di mantenere le distanze con i non adepti. Finnegan fa l’esatto contrario. La sua precisione linguistica, soprattutto per le parti strettamente collegate alle onde, ha l’abilità di farci entrare nel gruppo e donarci una posizione privilegiata.

Lo scorrere del tempo.

Gli anni passano per tutti e quel ragazzino che saltava sulla tavola per affrontare le onde del mare delle Hawaii ora non c’è più. Pagina dopo pagina osserviamo quel ragazzino crescere, affrontate sfide forse più insidiose e subdole di quelle che il mare gli ha presentato. Osserviamo il passare del tempo, l’aumentare degli anni e il crescere della nostalgia. Eppure, eppure quell’uomo che al mare deve tanto al mare ritorna con insistenza. L’asfalto di New York, il lavoro da giornalista, la vita che ha scelto, non possono tenerlo distante dal suo elemento naturale. Mi sono guardato le foto, sia quelle che sono presenti nel libro, sia alcune foto che ho trovato sul Web curiosando. Gli occhi sono rimasti gli stessi. Lo sguardo che si poggia sulle cose e ne rimane meravigliato è identico e io, nella mia testa, mi sono sempre immaginato che fossero gli occhi a fare il buon surfista.

La traduzione di un simile libro necessitava di un team con i fiocchi. Ecco perché questa è stata una traduzione a sei mani. Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini hanno reso questo libro anche un po’ nostro.

Lo scorso anno il libro più lungo che ho letto è stato un 66thand2nd e, anche se l’anno non è ancora terminato, non credo ci saranno modi di scalzare dal primo posto di questa classifica “Giorni Selvaggi”. Il fatto è che per quel che riguarda i memoir, le biografie, le autobiografie a sfondo sportivo non credo che 66thand2nd abbia rivali. La qualità dei testi è ottima e la qualità dell’oggetto non gli è da meno. Carta, copertina, carattere, traduzione, sono tutti particolari (non tanto particolari) che ti fanno propendere per un libro al posto di un altro.

William Finnegan è nato nel 1952 a New York ed è cresciuto tra la periferia di Los Angeles e le Hawaii. Dopo la laurea alla University of California, a Santa Cruz, e un master in scrittura creativa alla University of Montana, a Missoula, ha inseguito la sua passione per il surf facendo tanti lavori diversi in giro per il mondo: frenatore sui treni della Southern Pacific, benzinaio, parcheggiatore, commesso in una libreria, operaio, barman, insegnante d’inglese in un ghetto nero di Città del Capo. Dal 1987 scrive per il «New Yorker», oltre a collaborare con altre riviste, tra cui «Granta», «Harper’s», «The New York Review of Books». Ha compiuto reportage quasi in ogni continente, molti in Africa e in America Centrale, occupandosi soprattutto di politica estera, guerra, razzismo, povertà, crimine organizzato, globalizzazione. Ha pubblicato cinque libri e ricevuto numerosi riconoscimenti. Con il memoir Giorni selvaggi, bestseller in America, ha vinto il premio Pulitzer 2016.

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