Raramente capita di leggere un fumetto così. Pistouvi di Merwan Chaban e Bertrand Gatignol, pubblicato da Tunué, è un graphic novel diviso per quadri onirico-bucolici, piccole unità narrative che si giustappongono aggiungendo ognuna un pezzo del puzzle e che ho letto con inconsueto gasamento fino alla fine. Mi sbilancio? Ebbene sì, mi sbilancio, conteniamo moltitudini di fumetti, ma quando ci vuole ci vuole. Pistouvi colpisce subito per i meravigliosi disegni in bianco e nero, che non perdono un colpo dalla prima all’ultima pagina e che da soli ne giustificherebbero l’acquisto. Ed è un’opera che va giù impapalpabile ma con un suo sottile quanto irresistibile magnetismo fino alla fine, fino all’ultima pagina e poi chissà, fino a ogni eventuale continuazione gli autori volessero trarne. Leggerlo è stato come fare il bagno in una nuvola, come la cosa più svenevole che vi possa venire in mente, ma senza vergogna o imbarazzo. Come il ricordo dell’infanzia perduta: struggente. E mi riferisco in particolare a chi ha avuto la fortuna di passarla in campagna, la benedetta infanzia, come i protagonisti di questo strepitoso fumetto: Jeanne, una bambina, e Pistouvi, la volpe amica di Jeanne. I nostri vivono nella casetta sull’albero, con loro ci sono la donna del vento, un rude, gigantesco fattore, e gli uccelli, che i
due temono. Tutt’intorno a loro la natura, la società degli uomini sembra lontanissima, il mondo è magico. Pistouvi è un’opera avventuroso-allegorico che corre il rischio di non essere né fantasy né pesce proprio a causa dell’eccesso allegorico, ma vince la sfida con decisione e si candida come una delle migliori letture che possiate fare in quesi mesi. Per bambini e bambini cresciuti, Pistouvi è sogno e disegno. L’ennesima prova delle infinite potenzialità espressive delle nuvole disegnate.
Tunué
La verità è che io già avevo letto Francesco D’Isa e ne avevo pure parlato. Quindi, in un certo senso, non era un nome nuovo e sapevo pure da che base sarebbe partito per il suo nuovo romanzo. Se uno ha del talento e non semplici botte di fortuna sai già che ogni nuovo libro spingerà l’asticella sempre un po’ più in su.
Avevo aspettative altissime nei confronti de “La stanza di Therese” vuoi perché, come detto, conoscevo la penna che lo aveva generato, vuoi perchè i primi pareri che avevo colto online mi avevano intrigato. Quindi ho iniziato a leggere questo libro con un misto di curiosità, timore e senso di sfida.
Il senso di sfida deriva dal fatto che mi ero reso conto fin da subito che seguire il filo del discorso di Therese avrebbe reso necessario l’uso della maggior parte delle mie facoltà intellettive. E forse non sarebbero bastate. Quindi, tanto per sgombrare il campo da equivoci. Non ho la presunzione di aver capito questo libro, non ho la presunzione di darvi l’unica ed esclusiva chiave di lettura. Il fatto è che “La stanza di Therese” è un romanzo epistolare, un trattato di filosofia, il diario di una persona che sprofonda lentamente nella depressione, un libro oggetto, un punto di partenza e molto molto altro.
Therese, dopo un incidente, si chiude in una camera d’albergo e inizia una ricerca spasmodica. Quello che cerca è difficile da dire. Usando una spruzzata di filosofia orientale viene da dire che sta cercando se stessa, ma in ultima analisi, per quello che mi riguarda, a me sembra che lei cerchi qualcosa per cui valga la pena…
Durante la ricerca inizia un rapporto epistolare con la sorella di cui abbiamo solo piccole note a margine, commenti spesso piccanti e tendenti a sminuire gli arzigogolati ragionamenti di Therese. Quello di Therese è qualcosa che sfiora paurosamente il monologo e la seduta psichiatrica, al punto che in certi momenti ho avuto la sensazione che la sorella fosse un parto dell’immaginazione di Therese. Una sorta di alter ego creato da Therese con lo scopo di proiettare al di fuori di sé un desiderio di leggerezza che lei non riesce ad incarnare.
Mano a mano che le lettere di Therese si susseguono sembra che lei si stacchi sempre di più dal piano materiale, esca dalla stanza e inizi ad abitare una dimensione puramente mentale. L’epilogo del libro, l’ultima comunicazione, in queso senso è emblematica. Therese costruisce un mondo alternativi i cui mattoni sono i libri che ha comprato e letto e i pensieri che questi hanno scaturito. La sensazione è che la rivelazione finale che vuole condividere con la sorella è che non ci sia nulla di davvero “reale”, di “importante”. Nulla per cui valga la pena di “essere”.
Il libro è costellato di ritagli, immagini, foto, commenti e citazioni rendendolo un percorso complesso all’interno della mente di una persona. Una persona che sta cercando di arrivare al nocciolo dell’essenza che ci compone e che dall’altra parte trova una persona che non è disposta ad abbandonare le proprie certezze e preferisce vivere l’ora e il qui.
Come dicevo, non ho la pretesa di aver capito fino in fondo il libro di Francesco D’Isa. Forse non l’ho beccato nemmeno di striscio. Ciò che però voglio che sia chiaro è che qualunque sia il mio significato e la sua attendibilità rispetto al piano originario dello scrittore “La stanza di Therese” è un libro che vi consiglio di leggere. Ho l’impressione che ognuno di voi potrebbe trovarci qualcosa, un inizio da cui partire.
Ormai mi sembra chiaro quale sia lo scopo della collana di narrativa di Tunué. Vanni Santoni sta cercando di mettere uno accanto all’altro una serie di libri che abbiano la capacità di punzecchiare il lettore. Sta cercando una boccata d’aria fresca, delle voci, degli stili, delle strutture che facciano alzare il sopracciglio e modifichino di un po’ la nostra percezione della letteratura italiana contemporanea.
Francesco D’Isa (Firenze, 1980), di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ, 2014) e Ultimo Piano (Imprimatur 2015) e saggi per Hoepli e Newton Compton.Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.
Mauro Tetti – A pietre rovesciate
Si fa fatica ad aprirlo questo libro, non come gli altri Tunué che sembravano quasi soffici e sinuosi. Questo è un libro che richiede una certa fatica per entrarci dentro. E mi sembra il minimo. Perché per leggere “A pietre rovesciate” serve faticare. E lo so, solitamente la fatica viene associata alle cose spiacevoli, mentre in questo caso, fortunatamente, la fatica ha a che fare con la quella soddisfazione che hai quando riesci a finire qualcosa che ha spostato un po’ più in là i limiti della tua conoscenza letteraria.
Quello di Tetti è un libro che sotto il racconto un un paese e dei suoi abitanti, un paese collocato nell’ambito dell’immaginario, ci culla con una storia che potrebbe benissimo essere una fiaba. Il paese è quello di Nur, un paese di pietra che non si fa fatica ad immaginarlo davanti a noi. Sassi che dormono nella polvere, brezza che alza un pulviscolo indolente, un clima torrido che fa vacillare l’aria. Mi sembra di vederlo, Nur, mi sembra di vedere la Vecchia Dora, il nonno Trattore, Giana sommersa nella vasca, candida balena.
“E giorni, e mesi, e anni passarono. Diceva Nonna Dora. E malessere ci fu nel paese. Le dodici dimore in pietra erano diventate dodici torri immense. E c’era freddo e c’era malaria. Gli abitanti calpestavano il suolo brullo, raccoglievano manciate di sabbia e costruivano clessidre.“
“A pietre rovesciate” anche se nel modo tutto particolare di Mauro Tetti, mi ha ricordato certi squilli sensoriali che la cara vecchia Macondo ha esercitato per anni su di me. Quelle città che poggiano le loro fondamenta sulla leggenda e che rischiano di essere sgretolate dal tempo.
Questo è un libro che consiglio a tutti gli appassionati di storie che non si accontentano delle cose semplici, di quelle cose lisce che scivolano su di noi senza lasciare traccia. In “A pietre rovesciate” tutto è ruvido. È ruvida la pagina, è ruvida la lingua. I periodi rimangono addosso come fango seccato al sole, i capitoli ingannano con la loro parvenza esile, mentre sono essi stessi pietre.
Per quel che rigurda la casa editrice, voglio solo che Tunué continui così.
Mauro Tetti è nato nel 1986 e vive a Cagliari. Ha pubblicato racconti su Flanerí, Inchostro e altre riviste. Nel 2011 ha vinto il Premio Masala con il monologo Adynatom. A pietre rovesciate, vincitore del Premio Gramsci per inediti, è il suo primo romanzo.
Per anni, in Italia, il fumetto è stato un barbone, un tossico, un poco di buono che chiedeva l’elemosina con una mano e con l’altra ti sfilava il portafogli dalle chiappe. Uno studelinquente fuori corso che ci raccontava storie improbabili e immorali, fatto di alcol e colla, impresentabile in società. Giammai ti saresti fatto vedere in giro con un fumetto sotto braccio, persino dai tuoi compagni di bisboccia più cari. Poi le cose, però, sono cambiate. Dannazione se sono cambiate. Il fumetto si è messo il vestito buono ed è andato al gran ballo dell’alta società, dove è salito su di un pulpito e ha cominciato a dirci come ci saremmo dovuti comportare per essere bravi ragazzi che si fidanzano con le belle lettere & tutti vissero felici e contenti. Ma nessuno gli aveva fatto una doccia, prima. E così il fumetto, sotto il suo smoking nuovo nuovo e fresco di stiratura, e ben oltre i profumi, gli olii e le essenze che qualcuno gli aveva spruzzato addosso, ha continuato a puzzare. Quel fetore lo puoi sentire in ogni libreria, appena ti avvicini al reparto graphic novel, lì dove un tempo avresti potuto trovare qualcosa che ti avrebbe cambiato prospettiva, illuso, fregato e offeso, e poi illuminato, deliziato ed esaltato, e adesso trovi i breviari dei santi laici e i comandamenti per diventare bravi bambini & cittadini modello. Ed è per questo che non ho letto La scimmia di Hartlepool (testi di Wilfrid Lupano, disegni di Jérémie Moreau “Morrow” e pubblicato in Italia da Tunué) per sensibilizzarmi di fronte ai problemi del razzismo e del nazionalismo. Certamente, razzismo e nazionalismo mi sembrano due cose disdicevoli. Ma che il razzismo e il nazionalismo siano due brutte bestie non me lo ha insegnato un fumetto, me lo hanno insegnato la mia vita e la storia dell’umanità, quella che ho studiato su saggi e manuali. Non ho avuto bisogno di un fumetto per capirlo. Anzi, non ho mai avuto bisogno di un fumetto per imparare qualcosa. I fumetti sono tombe scoperchiate, mani ossute che mi tirano giù e mi trasportano in un altro mondo. Roba che dà i bridivi. E La scimmia di Hartlepool ne è l’ennesima conferma. Anche se molti batteranno il tasto del momento pedagogico, non suonerò quella tromba. Sappiate che lo smoking con cui qualcuno cercherà di nasconderlo non nasconderà l’orrore raccontato dalla grottesca leggenda della scimmia di Hartlepool, qui rivisitata dal duo francese Lupano-Morrow e splendidamente confezionata dalla nostra Tunué. Una storia che lascia sgomenti per la scempiaggine e per il gratuito orrore che ne traboccano, che si legge alla velocità della luce godendo dei disegni di Jérémie Moreau “Morrow” e che nemmeno una sceneggiatura affetta dalla sindrome di Forrest Gump o la dotta postfazione riescono a scalfire.
Editoria dell’immaginario – Intervista a Massimiliano Clemente di Tunué
Continuano i contributi sul mondo del fumetto e oggi, in occasione dell’apertura del Lucca Comics and Games 2015, intervistiamo il direttore editoriale di Tunué, Massimiliano Clemente. Allo stand di Tunué a Lucca potrete trovare molti autori italiani e stranieri disponibili per dediche e autografi e diverse novità in anteprima, tra cui l’edizione deluxe di Monster Allergy, che sarà presentata sabato 31 ottobre.
Innanzitutto ti ringrazio per aver accettato di concederci un’intervista. Per prima cosa ti vorrei chiedere di presentare brevemente Tunué, la casa editrice di cui sei direttore editoriale. Com’è nata l’idea di definirvi “editori dell’immaginario”?
Dopo dieci anni di attività, posso dire che oggi la Tunué è una delle principali case editrici italiane specializzate in graphic novel, fumetti per lettori junior, saggistica sui comics, l’animazione e i fenomeni pop contemporanei, e da due anni abbiamo una collana di narrativa letteraria che si è ritagliata uno spazio di riconoscibilità, per qualità delle proposte, niente male. Abbiamo iniziato con piccoli passi, dal basso, totalmente calati in un universo di rimandi e contaminazioni tra letteratura, fumetto, cinema, animazione che sono state le basi del nostro fare editoria. L’immaginario come panorama di riferimento.
Tunué si caratterizza per una linea editoriale ben precisa, improntata verso la graphic novel e la cultura pop. Qual è lo stato del fumetto in Italia? Si fa leva su uno zoccolo duro di appassionati o ci sono anche lettori, per così dire, occasionali?
In Italia si pubblica tantissimo fumetto, sia nei canali di varia sia in quelli specializzati e nelle edicole. Questo può essere letto in due modi: il settore è florido perché c’è abbondanza di proposte, o, all’opposto, vive in una perenne crisi e cerca di conquistare più lettori possibili. Ognuno tira la coperta dove preferisce, anche a seconda del momento. Purtroppo non esistono cifre ufficiali di vendita e bisogna basarsi su elaborazioni statistiche e sull’esperienza diretta. Per esempio, a giudicare dalle fiere, Lucca in primis, il fumetto e tutto l’indotto sono in salute. La forza di penetrazione che il graphic novel ha tra i lettori forti di letteratura, oltre a fare ben sperare per i prossimi anni, conferma che ci sono lettori occasionali che provengono da altre esperienze di lettura. Il grande successo mediatico di Gipi o Zerocalcare, che ha trasformato autori di qualità in fenomeni di costume, ha portato al fumetto una fetta trasversale di lettori che non avevano mai aperto un libro a fumetti.
Nel vostro catalogo sono presenti diversi autori stranieri, di cui ben tre candidati al Premio Gran Guinigi 2015. Che rapporto avete con i vostri traduttori? Cosa ci si aspetta da un traduttore di graphic novel?
Considero la traduzione uno degli aspetti fondamentali nel processo di adattamento editoriale. Il confronto per il traduttore di graphic novel è dato da un limite che non è presente nei testi in prosa: il balloon, la didascalia, la vignetta. Uno spazio chiuso che è un vincolo, una sfida all’abilità del traduttore. La Tunué lavora molto spesso con gli stessi traduttori, perché la condizione ideale è dare una «voce» unica a ogni singolo autore estero.
Piccola provocazione: che ne dite di inserire il nome del traduttore nella scheda tecnica del libro presente sul vostro sito?
Più che provocazione, suggerimento che ben accetto: mi informerò con i nostri tecnici per capire se ciò sia possibile. Però vorrei far notare che siamo tra i pochissimi, se non gli unici nel fumetto, che scrivono il nome del traduttore (oltre che del colorista, nei casi in cui sia presente) direttamente sulle copertine dei libri. [Verissimo, e d’altra parte qui a Senzatraduzioni scegliamo solo gli editori che trattano bene i loro traduttori! N.d.R.]
Grazie ancora a Massimiliano per la sua disponibilità. Se andate al Lucca Comics and Games e volete conoscere tutte le iniziative di Tunué durante la fiera, cliccate qui.
Mario Capello – L’appartamento
“L’appartamento” di Mario Capello all’interno della collana di narrativa di Tunué diretta da Vanni Santoni ci sta tutto.
Quando diventiamo davvero adulti? Me lo sono chiesto spesso e sono giunto ad una mia conclusione, forse campata in aria. Si diventa adulti quando si riconoscono le responsabilità. Non si diventa adulti quando si ha un figlio, si diventa adulti quando si comprente appieno cosa significa avere un figlio. Possono passare mesi tra una cosa e l’altra, anni magari.
Quando diventa adulto il personaggio del libro di Mario Capello?
Angelo ha un lavoro creativo, lavora con i libri, è un freelance. Sembra che le cose vadano per il verso giusto, ma all’improvviso il suo matrimonio naufraga e moglie e figlio si trasferiscono al paese da cui erano partiti. Quello che succede nella testa di Angelo a questo punto è emblematico. Inizia a riflettere su cosa sia importante e cosa superfluo, su ciò che deve essere moralmente posta in alto alla catena dei valori. Il figlio. Angelo quindi decide di seguire le orme della ex moglie e di tagliare i ponti con l’editoria (non serve fare molto, basta rifiutarsi al telefono ed evitare di rispondere alle email, segno che i rapporti lavorativi sono meno solidi di quello che potremmo pensare). Si trova un lavoro come agente immobiliare, che per quando sia un lavoro che necessita di un minimo di creatività nel descrivere i pregi degli immobili che si vanno a vendere, non è decisamente paragonabile a ciò che faceva prima.
Tutto prosegue lento, inalterato, vicino all’immobilità. Eppure un incontro fortuito con una coppia di anziani in cerca di un appartamento da regalare al figlio in procinto di sposarsi, cambia le prospettive. Cambia il rapporto con la vita che sta vivendo. Il marito della coppia ha molto più segreti di quanto si pensi e un libro di memorie da far leggere.
Ho letto il libro di Mario Capello tutto in una sessione, tutto d’un fiato. E spero di averlo fatto per il motivo giusto. Non sono stato spinto a leggerlo fino alla fine dalla speranza di un colpo di scena, l’ho fatto perché Mario Capello mi ha accompagnato dentro ad un mondo normale in cui il protagonista sarei potuto essere io. Un mondo in cui stiamo tutti cercando una sorta di equilibrio, una guida che ci confermi che stiamo facendo le cose giuste. L’ho letto perché sentivo che dovevo, che la fragilità di Angelo poteva essere mia, che l’incontro con le memorie scritte dall’anziano signore avrebbe potuto cambiare anche la mia di vita.
Poi c’è la questione scrittura. Misurata (ma poi che vuol dire “misurata”? Forse che si capisce a vista d’occhio che Mario Capello fa sul serio quando si tratta di scrivere e non prende in giro nessuno?), discreta, perfetta per accompagnare la storia che viene raccontata. E mentre rileggo queste righe di commento, mi rendo conto ancora di più di quando mi sia piaciuto “L’appartamento”.
Che dire di Tunué? Mah, questi hanno pubblicato per dieci anni Graphic Novel e poi si mettono a fare narrativa e la fanno bene al punto che di 5 titoli pubblicati, i 4 che ho letto mi sono piaciuti (per motivi diversi, ma mi sono piaciuti). Buon compleanno quindi e cento di questi libri.
Mario Capello
È nato a Carmagnola, una cittadina in provincia di Torino, nel 1976. Dopo la laurea e il biennio della Scuola Holden, ha iniziato a lavorare in campo editoriale. Il suo primo romanzo, I fuochi dell’86, è del 2009.
Orazio Labbate- Lo scuru
Quando ho la febbre faccio sogni/incubi come “Lo scuru” di Orazio Labbate. Quei sogni in cui le immagini e le parole si rincorrono, in cui i flussi temporali si spezzano e sei grande sapendo di essere bambino e sei bambino sapendo di essere grande.
Orazio Labbate è uno scrittore esordiente che ha dato alle stampe, per i tipi di Tunué, “Lo Scuru”. Un libro che sta avendo un certo successo e che ha già avuto un numero notevole di recensioni (se non ci credete fate un salto sulla pagina che il sito Tunué gli ha dedicato). E allora perché parlarne ancora? Perché pensi si poter dire qualcosa che gli altri non hanno detto? Perché pensi che la tua opinione valga più delle altre? No. Ne scrivo perché posso farlo. Tutto lì.
Ecco, io Labbate non lo conosco di persona, ho visto qualche foto, mi è sembrato a tratti spaesato, felice per il percorso de “Lo scuru”, ma con nello sguardo sempre un po’ di smarrimento. A me piace pensare che quello smarrimento che magari avrò notato solo io perché magari me lo sono semplicemente immaginato sia dovuta al fatto che a Labbate siano piovute addosso un numero così elevato di recensioni positive e di elogi da far fatica a portarli sulle spalle. Labbate si attribuisce alcuni maestri, Faulkner e MacCarthy tra gli altri, e altri maestri gli sono stati gentilmente donati da alcuni dei suoi recensori. Io a Labbate maestri non ne voglio dare, penso che lui abbia chiara in mente la genesi de “Lo scuro” e la sfilza di padri putativi e di libri guida che l’hanno condotto fino a qui.
Quel che mi sento di dire a Labbate, se le mie parole gli interessassero è: ragazzo mio, fatti due spalle forti forti, perché ad un certo punto, ti auguro che non succeda, potrebbe capitare che tutto il successo che stai avento produca l’effetto di stare sul cazzo ai critici. Perché in Italia, quando uno è bravo o anche quando viene detto che è bravo, sta cosa fa storcere il naso, perché il merito si compra, non lo si deve possedere di natura.
Ma basta paternali:
“Lo scuru” è la storia di Razziddu Buscemi, siciliano emigrato in America. La moglie è morta da poco, lui si siede sulla veranda di casa, con l’orizzonte a fargli compagnia e, tra suggestioni oniriche e colate metafisiche si perde nella riesumazione dell’infanzia siciliana. Il suo è uno sprofondare nei ricordi, nella genesi di ciò che è diventato con l’età. Le mille strade che si percorrono nella vita hanno un punto d’inizio comune. Il paese dove abbiamo costruito l’immagine di noi stessi.
Fin qui la trama. Quello che però ha più importanza, secondo me, nel libro di Orazio Labbate è la costruzione linguistica operata dal giovane scrittore. Un impasto di italiano, siciliano crudo e verace, un a lingua che densa come un fico spaccato in due e lasciato a seccarsi al sole del mezzogiorno.
Finisci di leggere “Lo scuru” e ti trovi a parlare come se fossi dentro nel libro, certo, magari al siciliano sostituisci il veneto, il bergamasco, il lunfardo.
Sia chiaro, il libro di Orazio Labbate non è una passeggiata di salute. Non me lo porterei in spiaggia il weekend e non lo consiglierei nemmeno a chi in autobus viaggia in piedi. “Lo scuru” ha bisogno di molta attenzione e molta cura. Si entra e ci si trova davanti ad un muro denso, ma pagina dopo pagina, entrando nelle spirali stilistiche di Labbate, ci si accorge che il muro è valicabile e alle sue spalle c’è un bel panorama.
Un libro del genere credo spacchi in due il pubblico. Da un lato quelli che lo difenderanno a spada tratta davanti ai detrattori e dall’altro quelli che non riusciranno ad entrarvi in sintonia. E’ una cosa che posso capire. E’ un libro molto particolare, con periodi costruiti in bilico tra l’italiano e il siciliano (senza necessariamente utilizzare lessico dialettale, a volte è la struttura stessa della frase a ricordare il siciliano di Butera).
Ora, io sono una persona curiosa. La mia più grande curiosità adesso e vedere cosa tirera fuori dalla sua testa Labbate per il suo prossimo libro.
[hr gap=””]
Tunué, dopo anni di frequentazioni fumettistiche ha messo nelle mani di Vanni Santoni una collana di narrativa. Delle prime quattro o cinque uscite una ha sfiorato la dozzina del premio Strega e un’altro, questo, che potrebbe rappresentare la casa editrice al Campiello qualora la candidatura venisse accolta. Tunué sta creando qualcosa.
Orazio Labbate è nato a Mazzarino nel 1985 ma ha vissuto sin dall’infanzia a Butera; si è poi laureato in giurisprudenza all’università Bocconi. Collabora con le riviste on line Il primo amore e Repubblica nomade. Dirige la rubrica «Mostri notturni» sulla rivista Fuori Asse. Il suo blog è Sicilia texana.
[hr gap=””]
Il gentilissimo Iacopo Barison, candidato al Premio Strega 2015 con il suo “Stalin+Bianca” Tunué edizioni ci ha concesso una breve intervista e sono felice di poterla pubblicare su Senzaudio.
Qui potete trovare la nostra recensione a Stalin + Bianca: recensione.
Stalin e Bianca sembrano essere due personaggi complementari, l’irruenza dell’uno viene placata dall’animo pacifico dell’altra. L’idea che mi sono fatto e che tu abbia voluto generare equilibrio tra i due dando il messaggio che nessuno può rimanere solo, nessuno può pensare di sopravvivere oggi senza qualcuno al suo fianco. Che ci puoi dire a tal proposito?
Sì, l’intento era quello, ossia dimostrare che la solitudine, in un mondo complicato come quello che abbiamo intorno, è un fardello da portare anziché un principio di libertà. L’amore, nel caso di Stalin, non significa aver bisogno delle persone intese come collettività, ma aver bisogno di una persona in particolare. Per Bianca, d’altronde, vale lo stesso discorso. Quel “+” che ho messo nel titolo, infatti, è già di per sé una dichiarazione d’intenti.
Uno dei punti forti di “Stalin + Bianca” mi è sembrato l’essere riuscito a creare un mondo monocolore. Qualcosa di privo di sprazzi di vitalità in cui, la vita stessa fatica a uscire allo scoperto.
Il mondo di S+B è monocolore, la maggioranza delle persone è allo sbando e sembra vivere una profonda crisi individuale, che inevitabilmente incide su ciò che pensano e fanno. Tuttavia, qua e là, si aprono squarci di speranza. I personaggi sono consapevoli che, una volta toccato il fondo, si può soltanto cercare di risalire. Questo romanzo, più che una discesa all’inferno, è una specie di on the road per allontanarsi dai gironi diabolici della quotidianità in cui Stalin e Bianca – e in generale tutti i personaggi del libro – sembrano ingabbiati.
Raccontaci un po’ la gestazione ci questo romanzo. Quanto tempo hai impiegato a scriverlo? Che difficoltà hai incontrato?
Ho impiegato diversi mesi, almeno sei o sette. Sono un perfezionista e spesso una pagina di romanzo mi richiede ore e ore di lavoro. Poi, ovviamente, c’è stata tutta la fase dell’editing, che mi ha preso un altro paio di mesi. C’è stato tutto un processo di “scarnificazione”, in cui ho ridotto ogni singola frase all’osso, che non è stato per nulla semplice. Lo stile del linguaggio doveva essere minimale ma non semplicistico, ma soprattutto volevo evitare le ridondanze. Come diceva Carver, “le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste”. Anche la ricostruzione dell’ambientazione, non volendo dare al lettore dei riferimenti geografici o cronologici, è stata piuttosto complessa, però ritenevo che ne valesse la pena, non si trattava di un vezzo artistico. Siamo nel 2015 e gli autori dovrebbero prenderne atto, non si può continuare a scrivere come se fossimo ancora nel secolo scorso. Il mondo è cambiato e la letteratura dovrebbe accorgersene.
Il tuo merito, tra i tanti è di aver raccontato una storia con un taglio molto cinematografico. Spesso ci si dimentica che uno scrittore non crea seduto dentro ad una campana di vetro e che le influenze arrivano un po’ da ogni parte. Quali sono le tue influenze cinematografiche?
Principalmente la Nouvelle Vague, registi come Truffaut e Godard hanno influito parecchio sul mio modo di scrivere, e in generale mi hanno fatto capire che il linguaggio (sia cinematografico che letterario) può essere inteso in modo molto più elastico di quel che crediamo. Mi ispiro anche a tutto il filone del cinema indie americano, le dramedy adolescenziali che sovente passano dal Sundance Film Festival.
Quali sono gli aspetti del libro che vorresti venissero conservati nel film?
Sarebbe bello se il film di S+B diventasse una specie di ibrido tra Big Fish e Nebraska. Nel modo più assoluto, dovrà restare l’atmosfera sospesa che domina il libro, quindi non dovranno esserci riferimenti geografici o cronologici. Il film, per ovvie ragioni, sarà l’occasione perfetta per allargare il discorso sul potere delle immagini e del digitale, che è già molto presente nel libro. Sono convinto che il linguaggio cinematografico saprà dare un nuovo spessore alla storia, indipendentemente da quanto resterà fedele alla versione “cartacea”.
Sogniamo un po’. Hai appena ricevuto la notizia che faranno una versione Hollywoodiana di Stalin + Bianca. Chi vorresti come regista e come protagonisti principali?
David Cronenberg come regista. Miles Teller nella parte di Stalin e Chloë Grace Moretz nella parte di Bianca.
Stalin + Bianca è nel mezzo di un percorso che sembra non doversi arrestare a breve. Dall’uscita del libro sono successe molte cose. Prima sono stati acquistati i diritti cinematografici e più di recente c’è stata la tua candidatura al premio Strega. Parlaci un po’ di come hai vissuto il cammino verso lo Strega fino ad ora.
La candidatura allo Strega, come ho già detto diverse volte, è stata ancora più inattesa del film. Il romanzo è pieno di riferimenti al cinema, quindi la trasposizione poteva starci. Ai miei occhi di sognatore, infatti, sembrava la naturale prosecuzione della vita del testo, seppur non fosse scontata. Lo Strega, invece, è innanzitutto un grande onore. Dopo la notizia della candidatura, mi è capitato di ricevere su Twitter attacchi da scrittori di dieci o vent’anni più vecchi di me. Mi sembra un buon segno, significa che mi temono. Quest’anno si parla molto di uno Strega diverso, più “democratico”, in cui si darà più spazio alle realtà indipendenti. Mi sembra una cosa molto positiva, che fa onore agli organizzatori del Premio. Sono curioso di vedere se questa volontà di cambiamento, più volte espressa dalla Fondazione Bellonci, verrà rispettata nella dozzina dei finalisti, oppure se resteranno soltanto parole e non seguiranno i fatti. Io, comunque, sono fiducioso. Uno Strega più imprevedibile gioverebbe anche al Premio in sé e a tutto ciò che gli ruota intorno. Che gusto c’è, altrimenti, a seguire una competizione in cui, di fatto, si sanno già i vincitori con mesi di anticipo?
Quando un libro ha un successo enorme tende a schiacciare chi lo ha scritto, tu come ti senti ora, hai già iniziato a lavorare sul tuo prossimo libro?
Ho buttato giù qualche idea, scritto qualche pagina, ma è ancora presto per scendere nei dettagli. Adesso, insieme al regista, lavorerò alla sceneggiatura del film, poi si vedrà. Non intendo certo farmi “schiacciare” dalle responsabilità. Sono felicissimo, gran parte dei sogni che avevo da piccolo si son realizzati, voglio solo continuare su questa strada.
Ringraziamo Iacopo Barison per la sua cortesia e la sua disponibilità.
Ho molto amato l’opera di Gabriel García Márquez, per cui, quando ho visto che lì fuori c’era una graphic novel che raccontava la sua vita, ho preso la notizia con un misto di curiosità e di timore. Curiosità dovuto al fatto che mi chiedevo come sarebbe potuta essere una graphic novel su Gabo. Timore che un pessimo lavoro potesse intaccare o offendere la memoria del grande scrittore colombiano. Fortunatamente ha vinto la curiosità.
Ed è stata una lettura davvero molto piacevole, perché, “Gabo. Memorie di una vita magica” in fin dei conti non è una semplice biografia, è più una biografia letteraria. Qualcosa che spiega le tappe di avviciniamento al successo, alla stesura sofferta di “Cent’anni di solitudine“. Qualcosa che mostra l’uomo che diventa scrittore, che ci racconta quali suggestioni siano state i mattoni per creare il mondo immaginario di Macondo. Ecco che quindi vediamo la fermata “Macondo” della compagnia bananiera, che facciamo conoscenza del nonno che con le sue storie ha messo il seme del racconto in Gabo e ci imbattiamo nella sorella mangia terra.
E’ magica questa biografia, come è stato magico leggere per la prima volta i libri di Gabriel Garcia Marquez. Ed è qui il punto di contatto tra le due opere, il riuscire a trasmettere l’incantesimo che c’è dietro alla creazione di un’opera di narrativa, anche se il mezzo espressivo scelto è diverso.
Fin dalla scelta del tratto e, sopratutto, della tonalità dei colori utilizzati ci sembra di fare un balzo all’indietro e di abitare le pagine ormai ingiallite della prima edizione di “Cent’anni di solitudine”.
E’ un omaggio, questa biografia, un modo per far arrivare al grande pubblico la potenza dei sacrifici fatti da Gabo da quando aveva pochi mesi fino al meritato premio Nobel del 1982.
E’ tante cose, questa biografia, quelle che ci vorrete leggere voi, con la vostra esperienza pregressa di letture del colombiano (o perché no, arrivando da un totale digiuno). Sarete voi, con il vostro affetto, la vostra partecipazione a dare vita a queste pagine. Quando avrete finito di leggerle vi resterà addosso la sensazione di aver conosciuto un po’ meglio un vostro amico che non vedevate da un po’.
Quattro disegnatori e uno sceneggiatore per far diventare la vita di Gabo un fumetto. Óscar Pantoja (sceneggiatore), Miguel Bustos, Felipe Camargo Rojas, Tatiana Córdoba, Julián Naranjo.
Un taglio cinematografico, un montaggio che si prende gioco di noi con continui flashback, con sovrapposizioni e inquadrature ricercate.
Tunué – Editori dell’immaginario è una casa editrice specializzata in graphic novel per lettori junior e adulti, nonché nella saggistica dedicata al fumetto, all’animazione, ai videogiochi e ai fenomeni popcontemporanei. Da maggio 2014 è presente nelle librerie anche con una collana di narrativa italiana che su Senzaudio è già comparsa.
Paratesto:
Questa non è una recensione a “Sostiene Pereira” di Tabucchi. Questa non è una recensione ad uno dei libri che più hai amato, ad uno dei libri che più hai riletto, sottolineato, portato con te in viaggio. Questa non è una recensione ad uno dei più grandi capolavori della narrativa italiana.
Questa è una recensione della graphic novel che da esso prende vita. Un degno omaggio.
Testo:
Quando un libro ha avuto un enorme successo di critica e pubblico come “Sostiene Pereira”, ogni trasposizione in un altro mezzo espressivo risulta rischiosa. Il paragone diviene inevitabile e solitamente, il libro, schiaccia pesantemente tutti i suoi rivali. Da “Sostiene Pereira” ne hanno tratto un film con l’indimenticato Marcello Mastroianni. Ora è il momento della graphic novel.
Mi sono avvicinato a questo lavoro con un misto di curiosità e diffidenza. Come detto, ho molto amato il libro di Tabucchi e non avrei mai voluto leggere qualcosa che macchiasse il rapporto che ho con questo libro.
“Sostiene Pereira” di Marino Magliani e Marco D’Aponte è un grandioso omaggio ad un libro splendito. E’ un inchino profondo. Un’abile estrazione del succo che rende il libro di Tabucchi unico. Partendo dalla caratterizzazione del protagonista, il giornalista de il “Lisboa” Pereira, per arrivare alla scelta dei colori. Colori che contribuiscono a rafforzare quell’atmosfera di indefinita sospesione in cui sembra aleggiare il libro. Quel caldo opprimente che sembra non dare vie di scampo e appesantisce una situazione politica che puzza di marcio. Suda il nostro Pereira, suda per le salite di Lisbona, suda per la pancia che si porta appresso, ma suda anche per i ricordi che pesano. La moglie morta, il figlio che non ha mai avuto e che forse potrebbe essere Monteiro Rossi. Il tempo in cui le cose erano migliori e l’Europa non era sull’orlo del baratro. Si sente pensate, Pereira, tranne quando balla un valzer con Marta, la bella e leggiadra Marta.
Ho concluso la lettura di questa graphic novel con la stessa tristezza che mi attacca ogni volta che finisco di leggere il libro di Tabucchi, segnale che i due autori, combinando i loro talenti, sono riusciti a ricreare la stessa tensione emotiva dell’opera originale.
Ho letto, nelle tavole, amore e rispetto per il romanzo, lo stesso amore e rispetto che prova ogni lettore innamorato di questo grande lavoro del compianto Tabucchi. E il lettore che teme di veder offesa la memoria di ciò che ama può stare tranquillo.
Se avete amato “Sostiene Pereira” il romanzo, dovresti dare un’occhiata anche al “Sostiene Pereira” graphic novel, perché troverete, nelle espressioni del protagonista, nelle maschere di morte dei militari e nelle colorazioni che cambiano a seconda dell’atmosfera, le stesse sensazioni che vi ha trasmesso il vecchio giornalista che soffre di cuore.
Segnalo inoltre l’introduzione di Paolo di Paolo con una chiave di lettura molto interessante. Quella del tempo.
Coordinate:
Tunué era già passata di qui con due libri di narrativa. Una collana aperta da poco che ha avuto come prime due uscire, recensite qui su Senzaudio, Sergio Peter e il suo “Dettato” e Iacopo Barison con “Bianca + Stalin”. Quest’ultimo è in procinto di diventare un film e scusate se è poco. Ho citato questi due libri per avvalorare la mia tesi secondo la quale se Tunué si mette a fare una cosa la fa bene, pure se è una cosa come la narrativa che affrontano da poco. Vi lascio immaginare cosa possono fare in un ambito che conoscono bene come quello delle graphic novel.
Antonio Tabucchi
Grandissimo autore morto nel 2012, dal profondo legame con il Portogallo, è l’uomo che ha curato la critica e la traduzione italiana di Fernando Pessoa. È autore di una vasta produzione di romanzi e saggi, di cui Sostiene Pereira è uno dei cardini maggiori.
Marino Magliani
Autore di romanzi e traduttore, ha pubblicato per Sironi, Longanesi e Transeuropa. Le sue opere sono tradotte in olandese e tedesco e hanno goduto anche di trasposizioni a fumetti e in cortometraggi.
Marco D’Aponte
Pittore e illustratore, ha realizzato tra gli altri i graphic novel Tazio Nuvolari, compagno del vento, biografia del mitico pilota mantovano, scritto da Pit Formento, e Quattro giorni per non morire, tratto dal romanzo omonimo di Marino Magliani, con la ceneggiatura di Andrea B. Nardi.