Mattia Grigolo torna in libreria dopo il convincente esordio de La raggia, uscito nel 2022 per Pidgin Editore. Ricordo bene quel romanzo ibrido, claustrofobico e psicotico, sospeso tra novella e racconto lungo, ennesima conferma di quanto lo scrittore milanese trapiantato a Berlino, sia legato da sempre alle narrazioni brevi. L’autore, che aveva già pubblicato alcuni racconti in riviste on line (Crack, Inutile) e vinto il Premio Zeno, torna oggi in libreria con questa raccolta di cinque storie racchiuse in quattordici episodi per i tipi di TerraRossa Edizioni.
Abbandonata la rabbia dell’esordio selvaggio, Temevo dicessi l’amore si pone al lettore come un ensemble di situazioni e personaggi in apparenza semplici, autonomi ma che nascondono un substrato di connessioni e rimandi ben più complesso di quanto potrebbe apparire a una prima lettura. Ci troviamo alla prese con una sequenza di flash (e flashback) in cui l’essere umano, nella fattispecie Ofelia, viene scomposto e raccontato attraverso la ricostruzione di cinque personaggi femminili diversi lungo tutto l’arco di una vita.
Abbiamo quindi un’Ofelia giovane, alle prese con le sue prime avventure affettive (e conseguenti rinunce), una più matura, in lotta con i fantasmi del passato e una professione che sembra ancora legata all’infanzia (L’Ofelia che per campare dipinge cavalli per giostre), per arrivare poi all’età della maturità, tratteggiata come una chiusa di fumosa solitudine. Qui il sipario cala silenzioso su una casa che non sembra trovar dimora se non tra le strisce di un parcheggio, metafora di un naufragio alla ricerca di una verità ultima talmente mutevole quanto inafferrabile.
Se di rabbia quindi non si può parlare, vien da pensare più a una sorta di spaesamento, una mite rassegnazione che predilige una tavolozza fredda a desaturare la scena, rimuovendo i tratti distintivi non solo delle protagoniste ma di tutti gli individui che entrano in contatto con questo affresco contemporaneo.
Grigolo sorvola sulle esistenze dei dispersi con un occhio sempre attento, discreto ma che non rinuncia alla cronaca di un movimento tellurico interiore in cui la complessità del restare a galla si fa ostacolo collettivo. Il piglio fermo della prosa non s’ha da confondere dunque con una piattezza dell’animo, le Ofelie che si frappongono nelle pagine sono sagome dai bordi smussati di una stessa lanterna magica che di stupore ne ha serbato ben poco. Resta la suggestione, la voglia di procedere nonostante le lame sempre piantate nel costato, la necessità per ogni Ofelia di questo mondo di inventarsi un’esistenza capace di colmare l’eco di una perdita enorme, forzatamente celata, fino all’enunciazione esplicita in quell’unica frase che rimette in gioco gli equilibri.
Nel mentre, ritorna il rimando all’animale, feticcio dell’autore, che dagli occhi inquisitori di quella prima volpe celata tra i rovi, qui si sposta sulle movenze degli aggraziati fenicotteri, dei cani randagi, dei gatti neri che assumono nomi che somigliano a presagi.
Il fine lavoro sulla prosa operato da Grigolo è un artigianato della scarnificazione che si carica sulle spalle l’eredità dei migliori minimalisti americani. Se proprio di risposte vogliamo consolarci, tocca stanarle tra i silenzi, nelle vacue voragini tra il gesto e la parola, mentre si cerca di non perdere l’equilibrio, nell’impresa del restare al mondo.
Recensione di Stefano Bonazzi