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Stefano Di Lauro – Troppo lontano per andarci e tornare.

by Gianluigi Bodi
Stefano Di Lauro

Non sono un feticista dei libri, anzi, se dovessi considerare come tratto alcuni dei volumi che maneggio, la fine che gli faccio fare quando li caccio nello zaino, quel continuo tirarli fuori e rimetterli dentro, se dovessi considerare tutto questo e ci fosse un tribunale dei libri è probabile che subirei una condanna esemplare. Ci sono però alcune case editrici per le quali faccio un’eccezione. Una di queste è Exorma. Credo che tenere in mano uno dei loro libri sia un’esperienza sensoriale appagante, credo che sfogliarli contribuisca ad aumentare il piacere della lettura, soprattutto se ti capitano tra le mani libri come questo.

Un’altra piccola prefazione. Non è facile pubblicare autori italiani, questo è quello che ho sentito dire da più parti. Molto spesso, mi dicono, è difficile scandagliare i migliaia di manoscritti che arrivano in redazione, trovare qualcosa che valga la pena pubblicare, qualcosa che rifletta l’idea che ha l’editore. Non sono inserito in questi meccanismi, ma nel mio piccolo posso capire le difficoltà. È per questo che trovo confortante avere un editore che, sulla narrativa italiana, sta facendo bene.

E veniamo al libro finalmente. “Troppo lontano per andarci e tornare” di Stefano Di Lauro è un libro davvero particolare, un libro che non mi sarei stupito di leggere già agli inizi del ‘900, se non prima. La storia ruota attorno ad un fantomatico circo, il “Au diable vauvert“. Questa espressione francese indica un luogo lontano, un po’ come se dicessimo “I confini del mondo”. E già il nome stesso del circo ci porta in un piano onirico in cui i personaggi sembrano danzare davanti ai nostri occhi, oppure, stanno seduti davanti a un fuoco a raccontare la loro storia. Méliès (detto Orlano), Louise detta Lou, la gigantessa Mardea, il suo contrario Nounours, Chouchou lo scimpanzé e gli altri sono uno spettacolo dentro allo spettacolo, perché anche se non ci è possibile assistere alle evoluzioni circensi, la loro stesas vita ci sembra degna di essere osservata con emozione e trasporto.

Il 31 dicembre 1899 il circo salpa su un piroscato chiamato “Holy Steam” (già qui ci sarebbero spunti sufficienti per parlare del parallelismo tra il sacro e il profano), partendo dalla Francia in direzione dell’Argentina e il viaggio, oltre che caricare i protagonisti di aspettative per ciò che gli riserverà il futuro, è un pretesto per entrare nella loro vita, per farsi raccontare cosa li ha portati fino a quel punto e per farlo non c’è nemmeno bisogno che paghiamo il biglietto.

Un commento a parte va riservato alla scrittura di Stefano Di Lauro. Credo che una storia, per essere raccontata bene, richieda un proprio stile e una propria lingua. In “Troppo lontano per andarci e tornare” Di Lauro trova l’unico stile che poteva dare vita a questa storia. Si cala in una lingua affascinante e melodiosa, piena di evoluzioni e decorazioni, una lingua che sembra uscita dai libri del primo novecento e che nononostante sembri provenire da un tempo lontano riesce a farsi sentire attuale, non cerca mai di allontanarci. Storia, lingua e stile vanno di pari passo e si amalgamano per dare vita a una nuova forma, a questo libro che affascina e che sembra vivere fuori dal tempo e ripescare tradizioni settecentesche del romanzo di viaggio.

Mi sembra di poter dire che Stefano Di Lauro, con “Troppo lontano per andarci e tornare” ci faccia riscoprire il piacere di ascoltare una storia, una storia che ha quasi del magico, in cui gli elementi portati da ognuno dei personaggi si intrecciano a formare una trama preziosa, un tessuto morbido e avvolgente, un senso di calore. Il calore che ho provato leggendo questo libro carico di simbolismi e capace di mantenere un solido equilibrio tra i momenti oserei dire più magici e quelli in cui le descrizioni si fanno più realistiche. “Troppo lontano per andarci e tornare” può essere considerato un romanzo “classico” per come la lingua sembra appropriarsi di note antiche, ma mantiene, nel modo in cui Di Lauro tratta le storie, un tono moderno e quantomai godibile.

Stefano Di Lauro si definisce un mitonauta. È autore, regista e compositore.
Ha pubblicato Eroine_ nient’altro da dichiarare (2012) e Dittico dell’amore osceno (2011) per Shamba Edizioni; La mosca nel bicchiere – La poetica di Carmelo Bene (Icaro, 2007); ÒperÉ (Besa, 2006).
Come regista teatrale ha lavorato in Italia e in molti paesi esteri. Autore di testi teatrali, adattamenti di opere straniere e riscritture di classici, ha anche realizzato opere di video-arte e documentari, e scritto musiche di scena affiancando numerosi progetti musicali e discografici.
Da bambino stravedeva per l’arte primitiva e gli innesti botanici.
Memorie di un delfino spiaggiato è il titolo orfano del libro che non scriverà mai.

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