Simboli da laboratorio?

by senzaudio

Come loro, nessun altro in Italia. Eppure, non fanno qualcosa di particolare per esserlo. Non tutti, almeno. Insomma, alla fine che fanno? Vivono per un pallone, inseguendo così il sogno di milioni di tifosi. Diventano dei miti. Le stars. Sono seguiti ovunque, non solo in campo, ma anche fuori. E questa è una responsabilità sociale. Perché diventano degli esempi, dei modelli da seguire. Loro malgrado, ma fa parte del pacchetto. E fanno tendenza non solo nel taglio dell’acconciatura, come dimostra il fiorire di creste faraoniche che spuntano in giro per l’Italia.  Giovani in un mondo che si nutre dei loro anni migliori (fisicamente, s’intende). Giovani che diventano così modelli per orde di ragazzini. Se poi mi venite a dire che i loro esempi dovrebbero essere altri, che leggere permetterebbe loro di  conoscere personaggi maggiormente degni della loro ammirazione, mi trovate pienamente d’accordo e vi stringo la mano per quanto state affermando. La realtà, pura, è però questa.

E questa responsabilità sociale deve essere sempre presente. I calciatori devono essere consapevoli che ogni loro azione può essere imitata. Più forte sei, più sarai venerato. Perché il calcio, per troppi, è una religione. Per questo sarebbe importante che i loro comportamenti negativi venissero evidenziati e biasimati. Dai giornalisti. Dagli opinionisti. Senza creare simboli modificati geneticamente in laboratorio. Simboli si diventa per la forza delle proprie idee, per l’esempio che nasce dal comportamento. Simboli non lo si può essere per il colore della pelle. Invece, succede così. Non solo nel calcio, ovunque. Vengono strumentalizzati, e loro contribuiscono perché lo status di uomo/donna copertina fa gola a molti, per mostrate forzatamente un’Italia multiculturale. Lo siamo e lo diventeremo sempre più. Perché questo è il corso della storia. E, per fortuna, non si può arrestare. Una persona, però, deve essere liberamente criticata se i suoi comportamenti, fuori e dentro un campo di gioco, si allontano da quella responsabilità sociale che l’essere un divo del calcio si porta dietro. Senza scadere nel razzismo. Ovviamente. Senza però tacciare di razzismo chi critica. Altrimenti, si ottiene il risultato opposto da quello che si voleva ottenere. Ed è il rischio maggiore, quello di fomentare un fenomeno, che rischiamo di vivere. Nel calcio e nella politica.

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