Sono un partigiano, lo ammetto. Metto subito le carte in tavole, preferisco giocare a volto scoperto. Partigiano nel senso pieno del termine: sono di parte, sono dalla parte di Marco Pantani, il Pirata che come nessun altro ha saputo regalarmi emozioni in sella a una bicicletta. Meglio essersi dichiarati subito, in partenza, perché in questi giorni si ritorna a parlare del ciclista romagnolo, morto nel 2004, e lo si fa in relazione alla vittoria del Tour de France del 1998, l’anno in cui Pantani vinse anche il Giro d’Italia, edizione sulla quale le autorità francesi stanno ora indagando. Marco non è mai stato trovato positivo all’antidoping, mai, nemmeno quando fu costretto a lasciare la Corsa Rosa per livelli di ematocrito superiori, di poco, alla norma. Mai nessuna sostanza dopante, una conferma arrivata anche tramite l’autopsia che attestò l’assenza di tracce di Epo nel midollo. Si dirà: i sistemi di rivelazione ora sono in grado di scoprire eventuali trucchi, a differenza di quanto accadeva una quindicina d’anni fa e si è quindi in grado di individuare chi ha barato analizzando le urine.
Osservazione giusta, ma sono passati quindici anni, Pantani non c’è più dal 2004, non si è mai ripreso dalla cacciata del Giro, dalle critiche feroci di giornali, opinionisti e televisioni: Marco era il Male, il Demonio, aveva tradito la fiducia di tutti. Scaricato, come un barile. Prima ti porto su, poi ti affondo. Quindici anni, molti dei quali dominati da Lance Armstrong, l’eroe americano vincitore di 7 Tour de France, il Grande Bugiardo per eccellenza, il simbolo di un ciclismo truccato, dopato, di un gruppo in cui il doping era una delle regole, di un mondo da cambiare. L’Uci, la massima organizzazione ciclistica internazionale, e lo Stato Francese dovrebbero abbandonare la ghigliottina, smetterla di dare la caccia ai fantasmi, minacciando di togliere titoli a chi non c’è più. come Pantani, anche perché chi ha ammesso di aver vinto truccando, come Bjarne Riis, continua ad avere il proprio nome nell’albo dei vincitori.
Si pensi quindi al presente e al futuro, ai professionisti e ai giovani, un mondo nel quale è facile barare. Gli strumenti ci sono, gli stessi corridori sono consapevoli che ora non si può più scherzare, perché a rischio è la credibilità di uno sport epico.