A San Valentino non si dovrebbe morire. Andrebbe vietato. L’amore è vita, la morte è la fine. Marco Pantani è morto il 14 febbraio 2004. Era un sabato sera, il suo corpo, già cadavere da qualche ora, venne trovato nella stanza del residence di Rimini in cui viveva da qualche giorno. Overdose, nessun dubbio. Il Pirata ucciso dalla cocaina, un campione dannato che non è riuscito più a ritrovare se stesso e che si è perso nei meandri della droga. L’unica, il giorno dei funerali – guardate quante persone assistettero alla cerimonia per salutarlo -, a urlare il proprio sospetto è stata la mamma: “Me l’hanno ucciso”. No, per la giustizia e per i giornali la verità è un altra, quella che è rimasta scolpita per dieci anni. Ora, grazie al lavoro degli avvocati e della ferrea volontà dei genitori di Pantani di ricercare la verità senza la parvenza minima di un dubbio, ci sarà una nuova indagine. Non si è ucciso Marco, è stato ammazzato. Troppi sospetti, diversi coni d’ombra. Tutti ora a dire che la Procura di Rimini lavorò male, tutti a riportare i particolari di quei giorni. Pochi, pochissimi lo hanno fatto in questi anni: troppo facile fermarsi alla verità giudiziaria, riportare le carte e fermarsi lì. Nessuna inchiesta giornalistica, ora i titoloni. E però la mamma del Pirata ha ragione. Suo figlio è stato ucciso, più volte: forse quella sera, sicuramente cinque anni prima, quando giornalisti, opinionisti attaccarono senza ritegno Marco Pantani. Era il dopato (quando non lo era), era il simbolo del ciclismo che crollava. E noi siamo bravi a scendere dal carro e sputarci sopra. Lo hanno fatto molti, persino direttori, compreso quello della Gazzetta, con parole pesanti come pietre. Uccisero l’anima di Pantani: lì si fermo la sua corsa. E io preferisco pensare al Pirata dal sorriso timido, triste, al grande campione che spianava le scalate. Ora le risposte le meritano i genitori e i pochi che hanno creduto a un’altra verità. In silenzio, però, quello che per dieci anni ha ingiustamente e colpevolmente regnato.
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