Perdutamente

Sfoglio un album di fotografie che non è mio. L’ho trovato ad un mercatino. Era l’8 Dicembre, c’era un freddo tagliente e il sole si è fatto vedere per pochi minuti e poi siamo sprofondati tutti in un vento bizzarro e glaciale. Siberiano. Ho visto un parrucchino volare e accartocciarsi su se stesso, scivolare sull’asfalto e raccogliere polvere, cicche di sigarette e sputi.
Ho portato a casa l’album perché il venditore mi ha chiesto solo 3 euro, non ho avuto la forza di contrattare sul prezzo. Ho pensato che il peso dei ricordi di una famiglia valesse quella cifra.

Sono foto sbiadite di persone che non conosco. Di tutte, quella che mi colpisce più di tutti è una bambina grassottella con lo sguardo curioso e tenebroso. Guarda fissa in camera e sembra che stia guardando proprio me. Sembra che quelle foto siano destinate a me da sempre.
Mi siedo sul divano, cerco una posizione comoda ed inizio a sfogliare questo grosso libro con la copertina in pelle che sembra arrivare da qualche posto incastonato nell’Europa dell’est. Come mi sento? Mi sento come se fossi un voyeur, incuriosito da quella famiglia bislacca procedo da una foto all’altra come se le immagini fossero legate da un sottilo filo di narrazione. Mi accorgo subito che non c’è un ordine nelle foto. E’ come se qualcuno avesse preso l’album e lo avesse lanciato in aria e le foto, come foglie, fosserò cadute a terra in ordine sparso. Decido di rimediare. Tolgo le foto e mano a mano che le osservo cerco di trovare un ordine al caos.
C’è la bambina vicino ad una donna che, per somiglianza, potrebbe essere la madre. Indossa delle pantofole. Sempre.
Dietro una foto c’è scritto “Io e papà”, ma nell’immagine immortalata c’è solo la bambina.
La bambina che ha  una posa strana, sembra protesa in avanti e allo stesso tempo ancorata ad un punto preciso.
Le foto scorrono, sembrano riprendere un ordine originale. Io e Volodja dice un’altra foto. Sullo sfondo un fiume increspato. Il tizio è sfocato. Non ha saputo mantenere la posizione. Si percepisce appena un sorriso diabolico.
Proseguo con il mio mosaico mentre la bottiglia che ho aperto diminuisce di livello. Diminusice anche la lucidità. Credo di vedere persone che non ci sono e soprattutto mi sembra che la ragazzina, la donna adulta, abbia iniziato a parlare rivolta a me. Usa una lingua colorata, densa, si infila in tutti gli interstizi. Mi lascio cullare dalla sua voce mentre in sottofondo si erge il Magnificat. La vedo soffrire e rinascere, ridere e piangere. La vedo abbracciata ad un gatto e immersa nell’acqua di fiume. Mi chiedo cosa sia vero e cosa non lo sia. Alla fine ho ricostruito la sua storia.
Suona il campanello. Mi alzo dal divano con l’album in mano e vado ad aprire. Sulla porta c’è lei. Ha occhi più profondi di quelli che avevo immaginato. La pelle tirata e un espressione che sembra dire ho sofferto e ho capito.
Mi prende l’album dalle mani e lo getta in aria. Vedo le foto spargersi sul pavimento. Adesso unirò i puntini, magari mi darà una mano anche lei.


Ida Amlesú (Milano, 1990), una Laurea in Filologia slava e una in Lingua russa, traduttrice, da sempre appassionata studiosa di canto lirico, vive a Mosca, dove insegna italiano. Una sua traduzione è stata pubblicata su Nazione Indiana. Suoi racconti sono stati pubblicati su Nuovi Argomenti e nell’antologia Ypsilon Tellers edita da Feltrinelli. Ha scritto Maiacoschi per la raccolta La mia prima volta con Fabrizio De André (edizioni Ibis).

Il testo che compare qui sopra più essere considerato un breve racconto che ha lo scopo di veicolare le sensazioni provate durante la lettura del libro al quale fa riferimento. E’, a tutti gli effetti, una recensione narrativa.

Commenti a questo post

Articoli simili

Leave a Comment