La Ferocia – Nicola Lagioia

by senzaudio

Nel quarto romanzo dell’autore barese Nicola Lagioia, La ferocia, una morte violenta dà inizio alla storia dell’ascesa e caduta della famiglia Salvemini, il cui pater è un ricco e potente costruttore, proprietario di un vero e proprio impero economico con propaggini che, da Bari, si allungano come tentacoli in tutto il mondo. I suoi quattro figli sono, ciascuno in un modo diverso, vittime della posizione sociale e del potere del genitore. La ferocia del titolo, parola che torna come un pungolo in molte pagine del romanzo, è quella del meccanismo spietato nel quale, quando i soldi sono tanti e iniziano ad agire quasi indipendentemente da chi li maneggia, si è costretti a entrare, e dal quale – pare dirci Lagioia – bisogna esser pazzi per uscire.

La similitudine che l’autore spinge lungo le quattrocento pagine del romanzo è quella tra la società e la catena alimentare animale: l’etologia è la disciplina che meglio riesce a descrivere un tempo in cui la libera scelta individuale non è più possibile («Metti una volpe affamata davanti a un branco di conigli. Corri in una piazza piena di colombi e li vedrai volare. Trovami un colombo che non vola»), e ci muoviamo come rotelle incastrate nell’ingranaggio di una macchina che ci governa. Un po’ come l’occhio di Lagioia dall’alto governa questa storia e i suoi personaggi, tanto è vero che è circolato tra i recensori il paragone con i Buddenbrook di Thomas Mann, una sorta di archetipo del romanzo sulla decadenza di una famiglia borghese.

La morte di Clara Salvemini, la prima figlia femmina, poco più di trent’anni e la bellezza senza scampo dei predestinati, fa partire pagine in cui si incastrano e sovrappongono prospettive, si avvicendano analessi e prolessi, una corsa ritmata che contiene al suo centro una storia d’amore fraterno anomalo e morboso.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia

Dopo una prima parte a tratti sorprendente, in cui l’incrocio dei piani è ardito, organizzato come un montaggio cinematografico (a pag. 145, per esempio, il pompino di una prostituta si intreccia con un atto di corruzione e le due sequenze sono in fondo un’unica rappresentazione del ricatto e della sottomissione), il romanzo si incanala in un’indagine privata e tende a normalizzarsi, le scene sembrano meno necessarie, e con esse la prosa, la cui caratteristica peculiare sono le similitudini stranianti, evocative, eccessive, cervellotiche e a volte contorte («Svoltato l’angolo, l’aveva riconosciuto da lontano. Michele aveva sorriso. Alberto aveva socchiuso gli occhi, come a schiacciare le uova che l’apparizione pretendeva di aver deposto in lui per il semplice fatto di mostrarsi lì, nella calda vampa estiva»). La struttura del poliziesco finisce per riportare su un terreno consueto e conosciuto una materia che aveva promesso qualcosa di differente. Nonostante questa scelta strutturale è innegabile che il ritratto della società pugliese realizzato da Lagioia sia molto acuto e efficace, plausibile e realistico. Non saranno pochi i lettori che, dal Tavoliere a Leuca, finiranno per riconoscere uomini, donne e vicende in cui si sono imbattuti realmente o di cui hanno letto sui giornali. Su tutti spiccano il sacerdote dal passato compromettente e il giornalista e intellettuale locale rancoroso nei confronti dei colleghi emigrati che pubblicano su testate nazionali: due ritratti perfetti.

La corruzione giudiziaria, la droga, lo sfruttamento edilizio del terreno costiero in barba a vincoli idrogeologici o ambientali, le vicende legate a rifiuti pericolosi interrati illegalmente in zone verdi e da preservare, sono, da anni, il rumore di fondo che disturba la passeggiata di chi si aggira tra le vetrine scintillanti e i bei palazzi del centro di Bari, o lungo la costa garganica.

«Il Sud è anche questo inganno, pensò Michele ferito dal sole, una parte più grande del tutto che dovrebbe contenerla».

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