Gli americani hanno portato la narrazione del Baseball a livelli eccelsi. A leggere “Underworld” di DeLillo pare di sprofondare nel mito. Il Baseball in sostanza è fonte di creazione di miti, ad uso e consumo dello spettatore. Ma è la narrazione che la fa da padrona, la potenza dell’onda narrativa che porta ai nostri giorni personaggi come Joe di Maggio.
Marani, nel suo libro “Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz ebreo.” ci porta su quel terreno, che per il calcio, in Italia, è pressoché inesplorato.
La storia che Marani racconta è una storia potente, tragica, che ha come ambientazione quella calcistica ma muove su piani diversi. Il calcio è lo sfondo, ma le figure che si muovono sono figure cariche di un destino oscuro. Sulle spalle di Arpad Weisz e della sua famiglia si carica il peso del male puro, rappresentato da Hitler e dal Nazismo. Sulle nostre spalle invece il peso di aver dimenticato.
La storia di Arpad Weisz inizia il 16 aprile 1896 a Solt, la storia della vita di Weisz, quella che ci interessa di più perché è la più importante, perché è il centro attorno al quale si muove tutto il resto. La storia calcistica di Weisz invece inizia ovviamente dopo, prima come calciatore e poi, come allenatore. Come giocatore, diremmo ora, un elemento buono, ma non eccelso, le malelingue direbbero mediocre, quelli con lo sguardo lungo probabilmente direbbero solo: fa l’allenatore in campo.
All’inizio del Signore degli Anelli di Tolkien, quando Frodo e compagnia lasciano la contea, c’è un momento in cui è palpabile la presenza di un’ombra sopra la loro testa, sono i cavalieri neri che a cavallo li inseguono, sono un archetipo del male, eseguono ordini e per questo giungono a noi quasi impersonali. Sono un fronte unito, un’intelligenza unica che si muove a comando. Tolkien ha preparato il campo a tutto ciò che verrà dopo, ma in quel momento preciso, la cieca ossessione dei cavalieri neri, che hanno un unico scopo e sono determinati a perseguirlo, fa aumentare a dismisura nel lettore l’angoscia. Non sappiamo come andrà a finire, ma ciò non ci impedisce di sentire un nodo stringersi lentamente alla gola, le pareti si stringono e mano a mano che le righe si susseguono siamo noi ad essere cacciati, siamo noi a sentirci soffocati. Non sappiamo quale sarà la fine per Frodo, ma per Arpad sì, anche se è ancora presto.
Eppure la sua storia è iniziata sotto buoni auspici. Il calciatore ha lasciato spazio all’allenatore. Un apprendistato veloce e subito i successi. Uno scudetto con l’Inter a 34 anni (l’allenatore più giovane ad averne vinto uno) poi gli screzi con il presidente che frenano la sua carriera, ma non la fermano, la discesa e poi la risalita fino ai due scudetti con il Bologna e la vittoria al Torneo Internazionale dell’Expo Universale di Parigi del 37 contro i maestri del calcio del Chelsea. Che si può volere di più professionalmente? Nulla. E quindi ecco la famiglia, una bella moglie (Ilona o Elena quanto italianizzata), ma qui si va ad istinto seguendo le dichiarazioni di chi l’ha incontrata visto che non ci sono sue foto, e due figli, un bambino (Roberto) che chissà magari da grande vorrebbe seguire le orme del padre e una dolce bambina (Clara).
Poi l’ombra oscura cala sull’Italia. Dalla vicina Germania soffia un vento gelido di morte, cala una rete e le maglie si stringono sempre di più. Gli ebrei in Italia vengono prima indicati per strada con corredo di sussurri maligni, poi emarginati, poi destituiti di ogni dignità ed infine cacciati.
Ecco il crimine di Arpad Weisz, dopo paragrafi di chiacchiericcio insulso (il mio) scopriamo che il crimine più grande di Weisz è quello di essere ebreo. E poco importa che non sia un praticante, che nella sua vita quell’essere ebreo sembrava avere la stessa importanza di essere vegetariano o vegano. E poco importa che i figli siano battezzati come cattolici. Tutto questo, all’ottusa macchina dentata della burocrazia italiana non interessa, ha già iniziato a sgranare, a togliere il buono dagli scarti. Quegli scarti sono i Weisz. Padre, marito, allenatore.
Quando il clima è ormai insostenibile sono costretti all’esilio. Lasciano alle spalle dei veri amici e si dirigono a Parigi, forse perché Parigi è la città che lo ha visto trionfare con il suo Bologna, forse perché Parigi è ad un passo dalla fine del mondo.
A Parigi non trova lavoro, è ebreo, ricordate, non è un dato da poco. Poi la fortuna gira e qualcuno dalla lontana Olanda lo assume. La squadra è quella del Dordrecht, modestissima compagine di studenti sgangherati che sono sull’orlo della retrocessione, ma che non lui si salvano. Il Dordrecht non arriverà mai ad eguagliare i risultati ottenuti durante il regno di Weisz.
Quello che lascia perplessi è altro. Weisz è un allenatore attento, un po’ psicologo e un po’ tattico. Riesce ad instaurare con i propri giocatori un forte legame. Non può non essere una persona intelligente. Non può non capire cosa sta succedendo, deve aver sentito le voci, Hitler è un pazzo, in Germania le cose stanno degenerando, si parla di luoghi in cui gli ebrei vengono fatti prigionieri e tenuti in vita per lavorare. Oppure uccisi.
Eppure, lascia Parigi con la famiglia per dirigersi spontaneamente verso la fonte di tutto il male possibile. Si auto imprigiona in Olanda. Geograficamente l’Olanda è lì, sembra aspettare pazientemente l’invasione tedesca, quando capiterà, e capiterà, non avranno scampo.
A cosa pensava Weisz? Che sia stato più forte il desiderio di ritornare sul campo a lavorare rispetto alla prudenza che una situazione come quella che si stava sviluppando in Europa avrebbe meritato?
Poi, si sa, le storie finiscono. Quelle di Ilona, Roberto e Clara finiscono per prime.
Quella di Arpad finisce nel 44. Ad Auschwitz.
Non vi ho parlato di calcio giocato, non ho scritto di come faceva giocare le sue squadre il buon Arpad, per quello c’è il libro di Marani che è scritto in maniera superba. Ma c’è altro oltre a questo parlar di calcio, c’è il fatto che la storia dell’uomo Arpad e della sua famiglia è stata dimenticata, quasi sepolta. Non so se per vergogna, per pudore o per qualche altra ragione più subdola, sta di fatto che il peggio che possa capitare ad un uomo che è stato vittima del nazismo è l’essere dimenticato. E’ come morire due volte.
Il risultato più grande che ha ottenuto Marani è quello di aver tirato fuori dall’oblio Arpad Weisz, allenatore ebreo, Ilona, Roberto e Clara.