Caro Signor Borges

by senzaudio

Caro Signor Borges,
mi scusi se la disturbo con questa mia lettera, avrà notato che ho preso l’abitudine di scrivere a scrittori morti. A scanso di equivoci non pretendo risposta, non serve che si disturbi.
Arrivo subito al punto, le sto scrivendo, principalmente per ringraziarla. Il motivo per cui la ringrazio le sarà chiaro se avrà voglia di leggere fino alla fine di questa mia indegna missiva.
Io, immagino, che dove sta ora lei non esistano più i problemi terreni, per cui presumo che la sua cecità progressiva ora non sia altro che un ricordo e che non le impedisca di vedere queste righe.
A pensarci, prima di andare oltre, mi devo scusare. Uno scrittore del suo calibro che ha avuto la sfortuna di perdere la vista e che ora, presumibilmente, l’ha recuperata, dovrebbe poter leggere cose molto più interessanti di quanto le sto scrivendo io. Quindi, se è arrivato fino a questo punto e deciderà di chiudere la lettera sappia che la capisco perfettamente.
Nel caso in cui invece decida di continuare mi permetta di spiegarle perché la voglio ringraziare.
Un bel po’ di anni fa, probabilmente una quindicina o giù di lì, ero convinto di essere un intellettuale. A tutti coloro che mi chiedevano cosa volessi fare dalla vita rispondevo che sarei diventato uno scrittore. Ora, non le devo spiegare quanto questa ambizione fosse fuori dalla mia portata e di come sia stata frustrata con il passare del tempo, voglio però aggiungere un paio di particolari per farle capire quanto grave fosse la situazione.Jorge luis borges
Leggevo tantissimo, molto spesso cose eccellenti e a volte qualche opera di dubbia utilità. Ero certo di poter stabilire di testa mia (visto che mi ritenevo intellettuale era in mio potere) se un libro era degno di essere letto oppure se si trattava di un puro spreco di cellulosa. Macinavo pagine su pagine, spendevo anche dei bei quattrini per alimentare questo sacro fuoco letterario, ma sapevo che ne valeva la pena. La giustificazione che mi davo era solo una: prima o dopo questo muro di libri avrebbe avuto una forma stabile e io avrei smesso di leggere per iniziare a scrivere.
Immagino che un sorriso sia comparso sulle sue labbra. Riesce ad immaginarlo? Un aspirante scrittore che ha già deciso che un giorno avrebbe assorbito abbastanza cultura dagli altri per poter mostrare la propria. Che tristezza.
Il tempo passava e io non riuscivo a fare altro che leggere. I conoscenti mi chiedevano cosa stessi scrivendo e io mestamente ero obbligato a confessare che ero ancora fermo a pagina uno riga uno. Una debacle. Eppure la presunzione di essere ancora uno scrittore, di essere destinato a diventarlo mi bruciava ancora nel cuore. E le fiamme erano alte e calde come le fiamme dell’inferno. Alimentate da quel continuo flusso di libri che non mi abbandonava mai. Leggevo al bagno, in treno, in autobus, al lavoro a volte in bagno al lavoro. Leggevo ovunque e sempre. Iniziai a pensare che tutti i libri fossero uguali in un certo senso, che tutti i libri fossero già letti ancora prima di aprirli. Le storie che leggevo mi sembravano banali e scontate. Mi dicevo che da qualche parte dentro di me dovevo trovare la forza di abbandonare la pigrizia e mettermi a scrivere. Stavo per farlo, sa? Poi non l’ho più fatto. E sa perché? Perché mi è capitato tra le mani “L’Aleph” e da allora nulla è più stato lo stesso.
Al principio, dopo la prima lettura ho creduto di averlo capito. Mi era piaciuto, per cui decisi di leggere anche altri dei suoi libri. A quel punto successe l’irreparabile. Da un lato mi accorsi che il suo modo di scrivere non era paragonabile a niente che avessi già letto. Un po’ per una questione di stile, un po’ per una questione di contenuti, non riuscivo a ritrovarmi nei suoi libri. Poi, ora glielo posso dire visto che son passati anni, ho ritrovato la sua mano in altri autori, per lo più dell’America Latina, ma all’epoca lei aprì un varco. E io in quel varco mi ci buttai. E mi persi. Lessi e rilessi le sue opere ed ogni volta che credevo di averle comprese venivo assalito dal dubbio atroce di essere completamente fuori strada. Inoltre, aggiungo, mentre leggevo avidamente le sue poesie, i suoi racconti, pure le trascrizioni delle sue interviste, mi resi conto che tanta bellezza e profondità d’intelletto mi era, ahime, inarrivabile. Non potevo entrare nella stessa arena in cui aveva combattuto lei. Partivo sconfitto.
Quindi, caro signor Borges, la devo ringraziare per più di un motivo.
Il primo però è questo: la ringrazio di avermi fatto sentire profondamente ignorante. La ringrazio di avermi fatto capire che nessun essere umano può dire di sapere. La ringrazio per quel senso di inadeguatezza che spesso mi è stato utile. La ringrazio per avermi fatto capire che non era il caso che mi mettessi a scrivere e la ringrazio per avermi risparmiato ore e ore di frustrazione in preda alla mancanza d’ispirazione.
Vede, signor Borges, aldilà dello scrivere o meno, aldilà delle velleità artistiche che ogni singolo essere umano può legittimamente vantare, io le dico che tutti dovrebbero avere un autore che li fa sentire profondamente inadeguati e ignoranti. E lo sa perché? Perché troppo spesso certi pseudo scrittori danno la letteratura come un campo di conquista, troppo spesso si arrogano il diritto di scrivere, pure sul nulla, convinti che sia qualcosa di facile e indolore. Eppure, come mi ha insegnato lei, non c’è nulla di facile e indolore nella scrittura.
A volte mi chiedo se certi scrittorucoli non siano così ignoranti da non capire di esserlo.
Caro signor Borges, ora la saluto. Mi scusi per il disturbo che le ho arrecato. Nelle intenzioni questa lettera sarebbe dovuta essere lunga meno della metà, ma che vuole, a volte lo scrittore che era in me si fa risentire.
P.S se le dovesse capitare di incontrarlo, mi saluti il signor Tabucchi.

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