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Questo viaggio chiamavamo amore – Laura Pariani

by senzaudio

Se al test invalsi vi chiedessero di trovare l’intruso fra Sebastiano Vassalli, Carmelo Bene, Giorgio Napolitano e Stefano Accorsi, su cosa puntereste? Vassalli perché è baffuto? Bene perché non è vivente? O Accorsi perché non è capace? Non ci siamo. Dovete levare Napolitano perché è l’unico a non essersi cimentato con Dino Campana. La notte della cometa di Vassalli è citato anche nelle bibliografie più serie; i Canti Orfici interpretati da Bene sono citati perfino in Paradiso (dove Campana sicuramente sta, tormentato da Alda Merini); Accorsi non lo cita nessuno, anche perché gli toccò fare il Campana innamorato di Sibilla Aleramo.
La vita di Campana è stata uno dei maggiori live del novecento italiano: poeta smisurato, condusse una vita errabonda all’insegna dello spaesamento, della fantasticheria e dei manicomi. Impossibile raccontarla tutta. Vassalli scelse di concentrarsi sul poeta in relazione al sistema letterario italiano. Libro straordinario, che denudava un sistema malato al suo nascere (fine ottocento: moriva la letteratura aristocratica e nasceva quella borghese, con le stesse fisime e gli stessi limiti della precedente), un sistema incapace di riconoscere il talento e di coltivarlo. Celebre ed emblematico lo smarrimento del manoscritto (copia unica dei Canti orfici) da parte di Soffici, che costrinse Campana a riscrivere l’opera.
Anche Laura Pariani, con Questo viaggio chiamavamo amore, sceglie un taglio particolare: la parte di vita di Campana più misteriosa. Siamo nel 1926. Dino “Edison” Campana è recluso nel Regio Manicomio di Castel Pulci. Tutto sommato non si trova male, in quell’inferno. Non gli sembra di soffrire come soffriva fuori. La poesia non esiste più, se l’è scrollata di dosso, e il Regio Manicomio sta a Campana come l’Africa a Rimbaud. Di tanto in tanto gli fa visita uno psichiatra, quel Carlo Pariani che sul caso Campana costruirà una piccola fama personale (Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore); lo psichiatra è molto attratto da alcune falle della biografia campaniana, in particolare la falla americana, una fantomatica odissea che il poeta avrebbe compiuto in Sudamerica. Anche Laura Pariani è molto interessata a questo viaggio, probabilmente è il motivo per cui ha scritto il libro: ama la poesia e l’Argentina dei primi del novecento (cui ha già dedicato diverse opere incentrate sull’emigrazione e le radici: estradati dalla vita, dialetti che non muoiono e milonghe che non finiscono), impossibile non scrivere Questo viaggio. Fra l’altro l’omonimia fra l’autrice e lo psichiatra è un aspetto molto intrigante, perché ci permette di ragionare sul concetto stesso di letteratura: la scrittrice Pariani riesce laddove lo psichiatra Pariani non è riuscito, vale a dire chiudere la falla e immaginare il viaggio. Lo fa partendo dai versi del poeta, che sarebbe come dimostrare la sfericità della terra sdraiandosi per terra, l’orecchio appoggiato al suolo, come gli indiani, ma trattandosi di un romanzo è la cosa migliore da fare: affidare l’immaginazione all’immaginazione (già cristallizzata in versi) di un altro immaginatore. Sono i versi campaniani infatti ad alimentare la narrazione di Questo viaggio chiamavamo amore e a dare il titolo a parte dei capitoli.
Dino Campana, cavia psichiatrica e letteraria di un paese nato vecchio, non seppe sfuggire all’elettroterapia e ai lacerbiani, in altre parole al mito del “nuovo” a tutti i costi. Scappò tutta la vita. Fece mille mestieri. Finì (probabilmente) in Argentina. Scrisse versi magnifici (espressionismo visionario, culto del primitivo e recupero del mito) e morì pazzo in manicomio, con uno psichiatra che lo intervistava. Tormentato dagli altri (dalla madre, dalle donne, dai letterati, dagli psichiatri) si tenne in vita, finché poté, col vagabondaggio e la poesia, per lui due facce delle stessa medaglia. Laura Pariani ce ne restituisce un pezzo mancante, il pezzo monco, privo di documenti, misterioso, il dark side di uno che era già tutto un dark side. Ci riesce pienamente, fra l’altro senza ricorrere ad una delle sue migliori doti, il lavorio linguistico intorno a dialetti, temi e canti popolari, da cui ha sempre tratto un sapiente pastiche; Questo viaggio si avvale di un impasto più puro, pur non rinunciando alla costruzione di atmosfere realistiche e visionarie allo stesso tempo, quelle scene già ammirate in Milano è una selva oscura. Ecco allora Campana con la “regina adolescente”, la protagonista della sua più celebre poesia, la Chimera, una ragazzina innamorata del poeta che la Pariani immagina suicida proprio per amore: questa è una vita da matti, o meglio è la vita che ci rende tutti matti… a te son bastati quindici anni, io ci sto mettendo di più, sussurra Dino all’orecchio della ragazzina, ormai esanime, e più la guarda, più la visione lo tormenta; poche ore dopo gli viene in mente un ricordo d’infanzia, una bambola che serrava gli occhi quando la si metteva in posizione orizzontale: mi incantava, o meglio mi ossessionava il problema del funzionamento di quel meccanismo. Epperciò presi la decisione di spaccarle la testa.

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