Ancora una volta. È successo ancora una volta. “Non importa da quale ingresso Daniele Rielli decida di entrare nel diorama ibrido e surreale che chiamiamo contemporaneità. Importa come ne racconta, ogni volta, un angolo diverso. E quanto, ogni volta, riesca a farci ridere”. Uno dei motivi per cui amo la casa editrice Adelphi è che ha dato alle stampe libri di una certa “importanza” (vedi infra), che non sarebbe nemmeno il caso di mettersi a citare qui per quanti sono, santo cielo. Per cui mi limito a citare una sola collana: la Biblioteca scientifica. Una collana che definire “importante” (aridanghete, vedi infra) sarebbe riduttivo, composta com’è da un dream team che farebbe impallidire il Dream Team o la rosa del Brasile nel 1970. Quella collana, insomma, che esordiva con Gregory Bateson e poi continuava con Hofstadter, Putnam, Damasio, Minsky, Feinman, Dennet, Barrow e via discorrendo. Libri talmente pieni di nozioni meravigliose, talmente traboccanti di cultura scientifica e illuminazioni che se li avvicini a un tipico intellettuale del Sud tutto liceo classico e tragedia greca fanno lo stesso effetto dei crocefissi sui vampiri. Avete presente uno di quei tizi che usano la parola “cultura” come il parmigiano, ma poi in verità non entrano in una libreria, biblioteca o museo da secoli? Ecco, mettetegli di fronte un volume della Biblioteca Scientifica Adelphi e il tizio si liquefarà tra indicibili tormenti lasciando ai vostri piedi una pozza schifosa (non fatelo se avete comprato un tappeto persiano).

Nonostante tutto questo abbacinante splendore, però, ci sono dei momenti in cui faccio fatica a comprendere gli amici di Adelphi. Era già successo, per esempio con la quarta di copertina de I due allegri indiani, un romanzo grazie al quale “si ride a ogni pagina, a ogni episodio, a ogni sberleffo, a ogni nuova invenzione verbale”, ed è successo anche per Storie dal mondo nuovo di Daniele Rielli, che ci viene venduto, anche lui, come un libro comico. A quanto pare, la mia relazione con il meraviglioso catalogo Adelphi è minata da alcune incomprensioni; a quanto pare il mio concetto di risata non corrisponde con quello adelphiano e mi preparo a inginocchiarmi sui ceci. Mi meriterei una reprimenda collettiva e qualche punizione pazzesca, qualcosa di severissimo, tipo leggermi tutte le mille e trecento pagine di Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino al contrario. Me lo meriterei se non fosse che a me capiti di ridere con più facilità vedendo una gag di Vieni avanti cretino o Fantozzi, entrambi diretti da Luciano Salce, che con una scenetta tratta dal pur geniale Il senso della vita dei Monthy Python, per esempio. Allo stesso modo trovo maggiore sollazzo nella gag di Ratman con la puzzetta del peluche che nelle argute, “importanti” (portiamo pazienza e… vedi infra) pagine in cui Daniele Rielli (già noto, anzi, molto noto, con il nome da blogger di Quit the doner) mi racconta la storia dell’autonomismo sudtirolese, una storia piena di bombe e con alcuni morti. Perché pur con qualche battuta qua e là e pur muovendosi su registri che spesso virano sul sarcastico o sull’ironico, la storia che ci racconta Daniele Rielli nel suo reportage non fa proprio ridere, semmai è inquietante. Di certo non fa ridere come la gag di Ratman e la puzzetta del peluche. Sembra quasi che nel pudibondo pianeta dell’editoria italiana l’arguzia e la risata a dentri stretti siano diventate comicità grassa e che la comicità grassa sia stata bandita, forse perché in odor di disimpegno anti-intellettuale e pornografia. Ce li vedo proprio, questi intellettuali metropolitani con le mani affusolate, che non hanno mai dovuto arare la terra, sganasciarsi dalle risate mentre leggono I due allegri indiani di J. Rodolfo Wilcock o Storie dal mondo nuovo di Daniele Rielli. Non li state vedendo anche voi? “Cava, questo passaggio di Daniele Vielli sugli attentati mi solletica anzichenò, ahahah che videve…”, oppure: “Tesovo, lascia stave Totò e Peppino e senti quest’invenzione linguistica di Vodolfo Wilcok, è esilavante”. Quante risate, nel mondo raffinato dei lettori contemporanei, una ridarella continua che non ti dico. Peccato però che leggere i meravigliosi libri di Douglas Hofstadter pubblicati dalla Adelphi mi abbia suggerito che il riconoscimento delle strutture è qualcosa che si avvicina a, oppure è, il nucleo dell’intelligenza. E qui, signori, non ho riconosciuto nessuna struttura definibile come comica né ho riso a crepapelle. Ho però letto un buon libro, composto di reportage editi e inediti, alcuni più ironici di altri, che ci raccontano il mondo degli startuppari, quello dei giocatori di poker, la grande tribù che venera Valentino Rossi, l’autonomismo sudtirolese dal punto di vista di un “italiano” di Bolzano, il matrimonio milardiario di due magnati indiani in Puglia e un incontro con il mitico Frank Serpico. Se volete ridere fino alle lacrime, cercate qualche altra cosa, ma se volete leggere un libro arguto Storie dal mondo nuovo potrebbe assicurarvi qualche ora… “importante”.

Eh sì, cari miei, e qui veniamo al gran finale, l’aggettivo “importante” è diventato una specie di piaga costruita in laboratorio ed è sfuggito anche all’autore di Storie dal mondo nuovo, per la precisione a pagina centosettantadue (“giocare ai tavoli continuava a costare cifre importanti“). Tu quoque, Daniele Rielli. Non se ne esce, abbiamo perso come in quei film di paura in cui l’umanità è condannata. Fate attenzione a usare l’aggettivo “importante”, amici, fate molta attenzione. Come il Pacman del famoso videogioco, la parola “importante” si sta mangiando il vocabolario italiano una sillaba dopo l’altra. Allarme rosso, dal linguaggio televisivo e giornalistico è passata addirittura nelle pagine di un Adelphi. Il contagio si sta diffondendo come in un film con i mostri. Intravvedo perciò un futuro importante, dove la civiltà avrà subito perdite importanti, causate da un numero importante di cause, ma su tutte la più importante: il rincoglionimento semantico collettivo; o se vogliamo il rincoglionimento semantico importante. Presto, molto presto, useremo quest’unico aggettivo, “importante”, poi l’aggettivo “importante” divorerà sostantivi e avverbi, si farà tutto il vocabolario, la lingua sparirà e per scampare al caos importante che ne conseguirà, dovremo tornare sugli alberi. Ma con un tablet su cui battere con il nostro tozzo ditone. Ed è sull’onda lunga di queste riflessioni che concludo citando un fumetto: Odio favolandia di Skottie Young, pubblicato da Bao. Non mi ha fatto scompisciare, probabilmente non è un fumetto “importante”, ma un sorriso qua e là lo strappa. E poi leggere la storia di una bambina imprigionata nel mondo dela favole alla ricerca della mitica chiave che dovrebbe riportarla a casa, fino a che perde il senno e mette il bel reame a ferro e fuoco, ecco… in certi giorni più “importanti” di altri si potrebbe rivelare davvero liberatorio.

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