A volte il fattore discriminante è lo sguardo che poggiamo sul mondo. Molto spesso sorvoliamo sulle cose senza soffermarci su di esse. Un albero è un albero perché sappiamo che c’è, che sta davanti a noi anche se non lo osserviamo davvero. Forse lo percepiamo, forse lo diamo per scontato.
Ed è sempre una questione di sguardi, ad esempio, quello di Silvia Greco è uno sguardo che ha mantenuta intatta la leggerezza di certi giochi di bambini e che riesca a trarre vita anche da quella che è la morte più assurda.
“Un’imprecisa cosa felice” inizia così, una serie di morti, una serie buttata lì per fare riflettere. Che poi vien da dire, come diavolo di sei permesso/a di morire così, che quasi mi fai sorridere e magari pure lo faremmo assieme se tu ci fossi ancora e non fossi caduto giù dalla finestra per una gara di sputi?
Poi inizia la storia, quella di Nino ragazzo con evidenti ritardi cognitivi e quella di Marta e dello Zio Ernesto. Quando conosciamo questi ultimi il lutto nella loro vita c’era già stato. A Nino capita mentre lo stiamo osservando, ma nel mondo nebbioso in cui sta Nino anche il lutto è una cosa assurda. La madre stesa, con il viso coperto e solo il naso di fuori, quasi un iceberg che emerge dal mare. Come dicevo Marta ed Ernesto il lutto lo avevano subito. Una morte assurda, surreale, quella che li ha colpiti. Forse un po’ di rabbia per non aver scelto una dipartita più poetica, meno da barzelletta.
Le strade di questi personaggi sono segnati dalla morte e sembrano influenzate da essa. Come se ciò che sono ora dipenda da ciò che non hanno più, fino a che una mano divina sceglie di sistemare le cose a modo suo e dà nuove opportunità ad entrambi. Nuove strade da percorrere.
Come detto, lo sguardo di Silvia Greco fa la differenza tra una storia pesante e noiosa ed una storia leggiadra che si legge d’un fiato. C’è meraviglia nella pagine, il piacere dalla scoperta e c’è la sensazione che nessuno dei personaggi principale abbia dovuto crescere per essere felice.
P.S Ma quanto bella non è la cover di Maurizio Ceccato? Sembra perfino banale dirlo.