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Una danza con Alfredo Zucchi su La bomba voyeur – di Sara Mazzini

by senzaudio
Alfredo Zucchi

Quella che avete adesso sotto gli occhi non è una vera intervista.

Alfredo Zucchi e io l’abbiamo immaginata come una danza. Un dialogo quanto più possibile spontaneo tra intelletti –  o spiriti, che dir si voglia – affini, contenuti in due individui dall’attitudine analitica e spesso in collisione con un’emotività di cui vorrebbero tentare l’impresa sovrumana di farsi una ragione.

Prima di cominciare abbiamo stabilito pochi passi fondamentali su cui poi lasciarci andare al ritmo dell’improvvisazione. A quel punto non sapevamo ancora nulla, tranne che avremmo voluto parlare di vita, di morte e di letteratura. Letteratura che è uno dei temi centrali ­– se non addirittura il tema – del romanzo di Zucchi, La bomba voyeur (Rogas Edizioni, 16 aprile 2018), e che qui è intesa nel senso più pratico del termine, quello del fare letteratura – banalmente, scrivere. È risaputo che ogni scrittore prima o poi ci caschi, che si ritrovi a scrivere di scrivere, ma è un passaggio inevitabile: se è vero che si può parlare solo di ciò che si conosce, per noi scrittori non c’è un’altra strada. Per quelli come noi la letteratura non è un passatempo, un’occupazione secondaria, e di certo non è una professione. È la vita. E se vogliamo parlare di vita, di morte e di massimi sistemi dobbiamo passare per forza attraverso la letteratura.

Un’altra cosa sugli scrittori è che non sono mai davvero soli. Tra noi non sussiste la possibilità di una reale intimità. Per questo apro la danza con l’immediata richiesta di un passo a tre.

Sara Mazzini: Alfredo, nel tuo romanzo c’è una figura potentissima, quella dell’Indio che suona col suo chitarrino in Campo de’ Fiori. È il poeta-guerrigliero, che racconta la sua storia di esilio e di come in Europa sia stato «accolto con onori che a stento meritava». Vorrei portare l’Indio nella nostra danza, posso?

 Alfredo Zucchi: Devi. Questo per me è anche un modo di parlare di qualcosa che mi sta molto a cuore, e cioè di Bolaño.

SM: In relazione a cosa? All’Indio?

 AZ: Bolaño è legato al personaggio dell’Indio da un punto di vista letterale. Ma in generale, e dal punto di vista simbolico, la presenza di Bolaño nel romanzo riguarda un modo di usare spietatamente la propria biografia. Di uscire da se stessi, di fare della propria esperienza il campo di battaglia, senza che il risultato parli di te. Tu non conti più niente, ma il fatto che tu sia il veicolo resta importante. Ora, Bolaño fa questa cosa, è come se rileggesse in chiave mitica ogni elemento della sua vita, dei conflitti della sua generazione, della sua epoca, del suo paese. Però tutto o quasi tutto passa per l’occhio – per il corpo – di un personaggio che è il suo alter ego. Per me la cosa importante era affondare nell’esperienza della mia giovinezza senza che fossi io a parlare, recuperare l’intensità di quell’esperienza senza cadere nella trappola autoreferenziale dell’autobiografismo. Tutte le incursioni in versi nel testo sono originali di quindici anni fa, ad esempio – e non conta che quei versi li abbia scritti io, ma che li abbia scritti qualcuno per davvero, indipendentemente dal romanzo in cui sono finiti. Quei versi sono forse l’unica traccia di verità nel libro.

SM: Vedo come questo ha a che fare col libro, ma non specificamente con l’Indio.

AZ: L’Indio è un modo di vendicarsi di Bolaño. Il suo arco ne ricalca in parte la biografia: prima il Messico, poi il ritorno in Cile, ancora fuga in Messico dopo il golpe del ‘73.

SM: Perché dici vendicarsi?

AZ: Nel romanzo si pratica la spietatezza, la crudeltà contro ogni idolo, e tra gli idoli c’è di sicuro anche Bolaño. È ovvio che non sia Bolaño a essere precisamente ritratto, ma una certa idea esotica, un certo esotismo del sudaca (latinoamericano) che ha ancora una battaglia moralmente accettabile da combattere. Eppure proprio l’Indio compie un gesto decisivo, sporco in qualche modo – forse senza volerlo, forse perché la sua maschera di puro e sofferente aderisce ormai così tanto alla sua faccia da non lasciargli vedere le cose come sono. E le cose sono che ogni gesto è un gesto politico.

SM: Io avevo letto la figura dell’Indio in tutt’altra chiave.

AZ: In che chiave? Dimmelo.

SM: Quella dell’interpretazione. Uno dei personaggi principali del romanzo, Nessuno, scrive, e questo dà adito a un problema scivoloso. Chi identifica il ragazzo con le sue parole ne ha dato una sua interpretazione. C’è nel libro una frase che gli viene ripetuta ben due volte, tante da indurmi a ritenerla cruciale: «Sei così bello, perché ti sforzi di sembrare brutto?» Sono parole che mi sono sentita ripetere spesso, durante la mia giovinezza. E la lettura di queste parole e poi dell’ultimo capitolo del libro – Paganini – ha riesumato un sentimento che avevo seppellito nei miei vent’anni, una specie di “delirio del disprezzo”, il desiderio brutale di fare del male a qualcuno. Non saprei definirlo altrimenti. In passato ho avuto a che fare con moltissimi lettori, persone che cercavano di interpretarmi. Più loro sembravano certi di aver dato la lettura più corretta di me stessa, più io mi sentivo in dovere di fare loro del male, per dimostrare che non ero quell’angelo di bellezza e di fragilità che mi avevano cucito addosso.

AZ: È così. Mi piace la definizione “delirio del disprezzo”.

SM: Nella mia mente ha qualcosa a che fare con “l’uomo del grande disprezzo” di Nietzsche.

AZ: In effetti, Nessuno è abitato da una voce che lui chiama “voce Zarathustra” – una voce che fa della pars destruens il centro del mondo. Inoltre il percorso di Nessuno è speculare rispetto a quello del personaggio Zarathustra. Questi accoglie il potere conoscitivo del dolore e dal dolore si lascia benedire – e l’uomo del grande disprezzo è una fase che attraversa per superarsi. In Paganini, che è l’appendice del romanzo ed è anche a tutti gli effetti un racconto conchiuso, c’è una furia espressiva che è del tutto estranea a Nietzsche, una voglia di farsi del male che si traduce in ritmo. In Nietzsche ci sono momenti in cui forma e contenuto combaciano, egli stesso è tra i primi ad affermare che «forma e contenuto sono la stessa cosa» – ma questo non avviene certo in Così parlò Zarathustra. Avviene più tardi, in Ecce homo, nell’Anticristo, nella Genealogia della morale, quando cioè si verifica una radicalizzazione dell’impeto. C’è invece una tradizione che fa del farsi male una maniera espressiva. Di questa tradizione fa di sicuro parte Artaud (e di sicuro ogni radicalizzazione dell’impeto avviene a discapito della lucidità) e c’è anche, credo, in tutta una tradizione musicale (di cui, sia detto en passant, noi facciamo parte, da cui noi – io e te di sicuro – veniamo: quando mi hai fatto ascoltare i The God Machine ho capito tutto di te). Ora, forse lo “spirito della musica” non è altro che una ritualizzazione dello smembramento e dell’automutilazione, e per questo in Paganini compaiono scene in cui si suona e si canta.

SM: Tornando all’Indio, mi sono segnata un passaggio, quello in cui dice: «Mi hanno chiamato eroe, e a quel punto ho capito: io ero la loro fantasia, la vostra fantasia – ciò che voi avreste voluto ancora poter essere, il vostro rimpianto». Questo è, io credo, il fulcro della differenza tra il lettore che tu definisci politico – la cui lettura, dici, è corretta e agonistica – e il lettore “profetico”, cioè quello di cui parlavamo sopra in relazione al problema dell’interpretazione. Il primo ci porta davanti al conflitto e quindi al confronto, allo scontro necessario per il superamento di noi stessi, il secondo ci pone davanti a un equivoco.

 AZ: Il lettore profetico. Eccola qua, Sara, una frase di Borges dal prologo al Manoscritto di Brodie: «L’età che avanza mi ha insegnato la rassegnazione di essere Borges». Il lettore profetico chiude l’orizzonte del senso, lo immobilizza. Il lettore politico sostituisce “rassegnazione” con “rifiuto”. Spinge per allargare l’orizzonte – ti spinge, ti costringe a fare l’amore con il conflitto.

SM: Dimmi di questo conflitto.

AZ: Ho cercato di essere quanto più spietato possibile col mio passato, con me stesso e con le persone che lo hanno abitato, anche quelle che ho amato – forse soprattutto quelle che ho amato. Alcune tra queste mi hanno rimproverato di non avere amore né rispetto per niente. Ora, questa cosa è importante. La cattiveria, dico. Penso che “fammi male” sia una parte importante del romanzo. Insomma, Sara, il delirio del disprezzo che dicevi tu.

SM: Tu come la vedi? Pensi che sia vero che non abbiamo né amore né rispetto? Io me lo chiedo spesso.

AZ: Eh. Senti, è una cosa serissima.

SM: Ieri sera, per esempio, mi sono tolta il sonno con questo pensiero. E stamattina, al mio risveglio, era tornato. Quel demone.

AZ: Io so questo, che scrivere è stare in contatto intimo con quel demone. Per me non c’era altro modo di usare quella parte di vissuto – ed è vero, sono stato spregevole col mio passato, e forse ho anche bisogno di sentirmelo dire. Perché sì, è vero, è così – e allora? Fammi male. Che stiamo facendo, altrimenti? Stiamo scherzando?

SM: A volte provo a parlare di questo con chi non ha mai sentito il bisogno di scrivere davvero. Queste persone non capiscono perché dovrei desiderare di vivere in un continuo stato di tensione. Non capiscono il male.

AZ: Ti capisco perfettamente. E in ogni caso, per vivere questo conflitto potenziato mi basta guardare in faccia mio figlio. Però, sai cosa? Ci sta. Fa parte del gioco – ed è un gioco che fa venire le vertigini. Ora, c’è un’altra cosa che volevo dirti, una cosa ugualmente importante. Col rischio di sembrare o essere bipolari: si tratta comunque di stare in equilibrio. O no? Dico: se vogliamo davvero portarle nella scrittura, queste cose, dobbiamo anche essere lucidi, e stare da entrambe le parti, altrimenti la scrittura si ridurrebbe a un gesto secco e violento, e non sarebbe quell’insieme di epifanie e mediazioni che invece la compongono. Forse questa è la vera crudeltà. È crudeltà prima di tutto contro se stessi. C’è qualcosa che tu hai notato: l’intuizione che il libro, le idee che veicola, siano più forti dell’individuo che le contiene. Questo è farsi del male. Cioè, questo è proprio il principio, credo. Ed è quello che sto cercando di fare.  A volte ho paura, altre volte mi piace avere paura. Non saprei dire di più. Mi capita di pensare che la mia lucidità non durerà a lungo. Mi sento in colpa per le persone che mi stanno vicino – poi smetto di pensarci.

SM: Sembra incredibile, ma se gli esseri umani si lasciassero guidare di più dalla paura scoprirebbero di non avere limiti. Invece, di paura non se ne ha mai abbastanza, ed è per questo che viviamo come se non dovessimo morire mai. Io alla morte ci penso ogni giorno, e questa paura è tutto ciò che mi consente di andare ancora avanti.

 AZ: Ci siamo.

SM: Ho letto questo libro molte volte, ma il processo non è stato unidirezionale: anche lui ha letto me. D’altronde, se è vero che l’essere umano si distingue da animali e macchine per la facoltà del pensiero, è anche vero che il pensiero lo mette in grado di riflettere sulla sua umanità. Allo stesso modo la natura ci ha fornito i mezzi per sviluppare la tecnica, e la tecnica ci ha messo in grado di manipolare la natura.

AZ: Sì.

SM: In La cospirazione contro la razza umana Thomas Ligotti, rifacendosi alle teorie di Peter Wessel Zapffe, suggerisce che la coscienza sia una sorta di tragico errore. Qualcosa che ha permesso all’umanità di sopravvivere, in dati momenti della sua storia, ma che poi le si è ritorta contro.

 AZ: Io ho parlato molto di questo nella parte finale del libro. Però devo dirti una cosa, la visione di Ligotti secondo me è troppo “psicologista”. C’è troppo uomo, dentro. Come ho già detto, uno degli esempi principali per Nessuno è l’arco narrativo del personaggio Zarathustra, e lo Zarathustra di Nietzsche è fondamentalmente uno che accoglie il potere conoscitivo del dolore – e allora, al cazzo il tragico errore. Non so se mi spiego.

SM: Io credo che siano punti di vista diversi sulla stessa cosa. Prima ti ho chiesto se secondo te siamo davvero noi che non abbiamo amore né rispetto per nessuno, ma non era proprio tutta la domanda. Il resto è: o forse noi siamo solo quelli che hanno il coraggio di mostrare un meccanismo a cui tutti sono comunque soggetti? Forse la vera mancanza di amore e rispetto sta in chi continua a tenerselo nascosto. Se la vita è essenzialmente sofferenza – proprio nel senso che senza sofferenza è impossibile dirsi veramente vivi – chi si nasconde questa verità sta in qualche modo negando la vita. Non trovi?

AZ: Bellissima domanda. È in effetti una sorta di consolazione, dirsi che siamo noi quelli senza amore e senza rispetto. Ed è tremendo che centoventi anni dopo Nietzsche stiamo ancora a consolarci così, quando invece dovremmo dire: noi siamo i Giusti. Noi siamo quelli che guardano le cose in faccia e siamo i Forti. E invece continuiamo a ballare nella cattiva coscienza. Facciamo schifo per questo.

SM: Un’altra tematica che associo alla figura dell’Indio è quella della fuga. L’impressione che ho tratto io è che la fuga sia presentata essenzialmente come possibilità del ritorno. Come dire: senza fuga non c’è ritorno – ecco a cosa serve.

AZ: Eh, sì. “La perfezione della fuga è il ritorno.” Il ritorno è un gesto politico, è l’unico gesto politico che il ragazzo compie. È una possibilità della fuga, ma non una necessità della fuga.

SM: Dimmi cosa intendi con politico.

AZ: Intendo una cosa che ha che vedere con la spietatezza. C’è una dimensione cieca nella forza; politico è un modo di adeguarsi al ritmo della forza. La grande bellezza della natura, ad esempio, è questo suo rendere conto di un modo di essere che hanno le cose e che non ha quasi niente a che fare con l’uomo. Con l’uomo intendo la sua autocoscienza. In questo senso a me parla sempre tanto il modo in cui, nella teoria dell’evoluzione, si descrive la forza, cioè la risultante di quei processi che fanno in modo che una cosa sopravviva o meno. È una forza cieca, che si adatto al caso e allo stesso tempo, senza saperlo, lo sfida. Ecco, politico è questo: “sfidare il senso ad apparire”.

SM: Credo che l’Indio abbia un’ultima cosa da dire, questa: «Non posso tornare a Santiago de Chile […] Se tornassi ora, perderei quell’unica forza che negli anni mi ha tenuto in piedi vivo, identico. Questa forza è un’assenza, una mancanza, ed è tutto. È l’esilio.» A me, che ho vissuto sei anni in Baviera, questa sezione parla chiaro. A chi mi chiede perché ho deciso di tornare non riesco mai a rendere ragione della mia scelta, dal momento che dalle mie parole sembra trapelare solo una forte nostalgia. La verità è che la Baviera aveva cominciato a diventarmi familiare. Aveva smesso di darmi quel senso di esilio. Così mi sono esiliata da sola nella mia terra natale.

AZ: Capisco meglio la tua fascinazione per l’Indio, ora.

SM: Quella sezione mi strappa il cuore.

AZ: Anche a me. Tutti quelli che ho spietatamente odiato nel romanzo, odiandoli li ho amati. Su tutti, il personaggio della Vestale. Voglio bene alla Vestale perché è riuscita ad amare tutti i personaggi in cui si è imbattuta – questo manipolo di ciechi, ambiziosi, arroganti e disperati. Perché ha saputo vivere il desiderio nella sua pura dimensione sensoriale – è un animale guidato dal desiderio, il suo amore non ha morale, è puro e aperto.

SM: Quello a cui tutti dovremmo aspirare.

AZ: Sì. La amo per questo. Il capitolo a lei dedicato, Due fatalità, in cui la sua storia si incrocia con quella della madre di Nessuno, è l’ultimo che ho scritto. E l’ho scritto con amore dall’inizio alla fine.

SM: E questo si sente, sai.

AZ: Senti, è stata una bellissima conversazione.

SM: “È stata”, dici. Per me invece è – e sarà. Quando le menti si mettono in moto, non si possono fermare. Ho idea che questa danza finirà col deformare l’universo.

AZ: È molto probabilmente un’illusione, cioè una promessa che noi sappiamo non sarà mantenuta – e tuttavia ci crediamo, la inseguiamo perché siamo innamorati della sua intensità.

 


Sara Mazzini (1980) ha vissuto due anni a Milano, sei a Monaco di Baviera e il resto a Firenze. Ha studiato correzione di bozze presso Oblique Studio. Ha collaborato con J. Walter Thompson Italia e con diverse riviste online sotto lo pseudonimo di Judith Cavalera. Attualmente è co-direttore di CrapulaClub e lavora come consulente part-time presso un noto centro fitness a Firenze.

 

Alfredo Zucchi (1983) ha vissuto, studiato e lavorato a Napoli, Bruxelles e Barcellona. Dal 2014 è a Vienna. Ha fondato e co-dirige il lit-blog CrapulaClub, è redattore della rivista Cattedrale. Suoi articoli, interviste e traduzioni sono apparsi su Sotto Il Vulcano, The Catcher, Nazione Indiana, Zest Letteratura Sostenibile e Pagine Inattuali. La bomba voyeur (Rogas Edizioni, 2018) è il suo primo libro.

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