Se non ti stende il susseguirsi di quadri composti da molta ombra e poca luce allora ci penserà lo stile a schiantarti al tappeto. Non credo ci sia la possibilità di finire questa lettura rimanendo in piedi sulle proprie gambe.
Ho iniziato parlando di luce e ombra e non l’ho fatto a caso. In questa giornata in cui, fuori dalla mia finestra, il sole sembra essere stato risucchiato dall’oscurità mi rendo conto che molta della “magia” di questo testo è condensata nel rapporto tra buio e scintilla di luce, tra la speranza e la dura realtà. “Ultima uscita per Brooklyn” è una cappa pesante, un lenzuolo steso sopra ad un cadavere. La sensazione di oppressione è costante e totale. Ed è per questo che quei pochi momenti di luminescenza rimangono appiccicati addosso. Come quando Georgette, nel mezzo di una festa a base di alcol e droga, con l’amore della sua vita a pochi passi, si mette a declamare “Il corvo” di Edgar A. Poe e tutti gli altri pendono dalle sue labbra. Anche Vinnie per un secondo sembra ritornare umano.
Le scene raccontate da questo libro girano tutte attorno al bar del Greco. Un ritrovo per disadattati, derelitti, senza futuro e senza presente. Anime umane perse o che forse non ci sono mai state. E’ un continuo passare dal generale al particolare e ritorno. E’ un continuo focalizzarsi sul dettaglio, studiarlo senza mezze misure, scoperchiare i nervi e stuzzicarli. Il più possibile vicino alla verità (qualsiasi cosa essa voglia dire). Transessuali, drogati, ladri, disadattati, militari in cerca di rissa, gente di colore in un momento in cui essere di colore era anche più dura di quanto lo sia adesso, questi sono gli elementi di cui Hubert Selby Jr. si serve per dipingere la sua tela. Usa colori granulosi, pennellate abbondanti, ma i toni sono sempre scusi, non c’è scampo.
“Ultima uscita per Brooklyn” non è un libro consolatorio, non è un libro natalizio e, a mio parere, non è nemmeno uno di quei libri che ti puoi permettere di leggere usando meno del cento per cento della tua attenzione. Il motivo è facilmente spiegabile.
Lo stile. “Ultima uscita per Brooklyn” è un romanzo che io definirei corale. Selby Jr. riesce a portare avanti la struttura come se fosse un’onda che inghiotte il bagnasciuga, ci fa affogare nelle parole. Le scene più concitate, quelle dei dialoghi al bar ad esempio, quando un gruppetto di personaggi interagiscono tra di loro sono rese in maniera stupenda. Un’avanzamento costante, un accerchiamento. Inizialmente si individuano gli stacchi, il chi dice cosa, l’individualità, ma ci sia avvicina subito all’idea che le voci non siano separabili, che siano un’unica voce di un personaggio unico e supremo che assorbiamo per osmosi. Il tutto con una musicalità ereditata dal miglior Jazz e con lo sguardo spietato e allo stesso tempo commosso di chi non ha potuto fare altro che raccontare ciò che vedeva anche quando era doloroso.
Il 2017 ha avuto un colpo di coda e mi ha regalato la lettura di questo libro che non dimenticherò facilmente. Ovviamente mi sento di ringraziare Sur per questa splendida scelta, ma anche Martina Testa che si è sporcata le mani (e penso anche i gomiti) per tradurre questo libro che io, da profano, ritengo difficilissimo da affrontare.
Ulteriore valore aggiunto di questa edizione la prefazione di Paolo Cognetti.
Hubert Selby Jr. (1928-2004), ex marine, a lungo afflitto da problemi di salute, dipendenza dalla droga e depressione, approdò alla scrittura da autodidatta e rimase perlopiù ai margini della scena letteraria mainstream, ma fu ammirato e sostenuto da figure cardine della controcultura come Allen Ginsberg, Amiri Baraka e Anthony Burgess. Oltre a Ultima uscita per Brooklyn, ha lasciato una raccolta di racconti (Canto della neve silenziosa, Feltrinelli) e cinque romanzi, fra cui Requiem per un sogno e Il salice (Fazi Editore).