“È chiaro. Dunque quale è la natura di questo primo motore? Sempre che sia possibile dirlo”. Mi guarda, anzi proprio mi fissa, quasi sbigottito. “Ovvio che si può, dovrebbe sapere che la verità, finanche la verità della fillsofia prima, è accessibile all’uomo. La verità è intellegibile. Dunque posso esporle, senza problema alcuno, la natura del motore immobile. Ecco in anzi tutto bisogna dire che esso è atto puro, giacché se fosse potenza sarebbe necessario porre un motore ulteriore, che permetta il suo passaggio da potenza ad atto. Inoltre deve essere avulso dal resto del cosmo, e deve essere concepito come pura forma. Siccome esso è atto e in quanto tale è azione, si dovrà immaginare, anche vista la sua essenza, ossia il suo essere forma pura, che tale agire sia il più perfetto di tutti, nella fatti specie il più slegato dalla materialità e quindi si dovrà pensare il motore immobile come pensiero. Ma il pensiero statutariamente sottende un oggetto e l’oggetto del pensiero del motore immobile, essendo esso necessario e perfetto ed ingenerato, deve essere un’istanza avente i medesimi attributi. È dunque chiaro che il motore immobile ponga come oggetto di pensiero se stesso. Il motore immobile è dunque necessario, eterno ed ingenerato. Oltre a ciò andrà definito come atto puro e pensiero di pensiero”. Mi scruta estasiato e ,al contempo, sospettoso. Ansioso. Cerca di carpire. Di scavare. Di cogliere le mie reazioni. Faccio per aprire bocca, ma il cameriere ci interrompe lasciando le mie parole a mezz’aria. “Due caffè” lo ringrazia in maniera sbrigativa, ma cortese e poi ritorna a ficcare i suoi occhi dentro i miei. Sono in imbarazzo. Perché ciò che per lui è chiaro per me lo è molto meno. Quello sguardo intenso mi frena. “Allora? Cosa ne pensa? Concorda?” mi esorta. Riesco a rompere gli indugi. Mi schiarisco la voce e faccio alquanto deciso ” Non ritiene, a tal proposito, fondata la critica che le muove Plotino, per cui non si potrebbe ritenere il pensiero di pensiero come principio ultimo della realtà, in quanto la natura dialettica del pensiero sottende sempre una dualità ed in particolare un soggetto ed un oggetto, pensante e pensato?” È visibilmente scocciato dalle mie rimostranze. Riesce, sforzandosi, ad abbozzare un sorriso e fa ” La natura dialettica del pensiero è una concezione plotiniana, e, come tale, non devo renderne conto io. Certo il pensiero presuppone soggetto e oggetto, ma se vi è perfetta identità fra tali due istanze, non vedo come ciò possa portare al porre un ulteriore principio unitario. Vista l’identità assoluta che sussiste, in tal caso, tra pensante e pensato. Quindi dovrebbe chiedere a Plotino”.” Pur sussistendo la totale identità, il pensiero di pensiero è ad un tempo soggetto ed ad un tempo oggetto, dunque non crede che tale principio dipenda da un principio unitario?”. Smette, ci colpo, di sorseggiare il suo caffè e mi guarda, sconsolato ” No, decisamente no. Plotino ricade nei medesimi errori di Platone e delle sue teorie non scritte. Comunque per solvere tali quesiti avrebbe dovuto interloquire direttamente con lui”. Il sorriso si fa sempre più tirato. Ormai non è che un ghigno. ” Non escludo di farlo” dico, tentando di porre fine alla tensione imperante ” passiamo a parlare della sua etica, come spiega il rapporto tra razionalità e passione o comunque tra razionalità e elemento arazionale?” ” È manifesto che all’interno dell’uomo siano presenti dei principi a-razionali, che peraltro erano già stati concepiti da Platone. Io ritengo che l’arazionale in sè non possegga valore morale, al contrario esso si configura eticamente nel momento in cui viene abbandonato a se stesso, è dunque si tramuta nel vizio, oppure viene asservito e controllatao dalla ragione, divenendo così virtù. In questo senso l’interazione tra passione e ragione è finalizzata al raggiungimento del, così detto, giusto mezzo. Più specificatamente si può dire che tra passione e ragione sussiste un rapporto ilemorfico, per cui i sentimenti costituiscono la materia a cui la ragione è chiamata a dare forma”.Lo guardo intimorito. Riverente. Non mi sento nella posizione di porre in dubbio la sua concezione, anche se vorrei farlo. “Non è concorde vero?” “No” rispondo facendomi forza ” non capisco come sia possibile stabilire un giusto mezzo, nè come sia possibile applicare questa logica puramente quantitativa in una dimensione prettamente qualitativa. L’etica non può essere, per me, fatta con il bilancino e la calcolatrice” Lui mi guarda sorridente. Malcela il suo sconforto ” Non si tratta di quantità, ma all’opposto di qualità. La mesotes è qualità. Forma, che la ragione dà alla materia, quantità. Ma temo che non la persuaderò mai”. “Temo anche io”. Gli faccio eco. Paghiamo e ci congediamo e lo guardo mentre si perde tra la gente che affolla la piazza. Ho intervistato Aristotele. Ancora non mi sembra vero.
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Scorgo Aristotele dal lato opposto della piazza, mentre sta con lo sguardo a mezz’aria sotto i portici. Esattamente dove avremmo dovuto incontrarci. In realtà l’idea di intervistarlo mi lascia ancora attonito e sbigottito. Mi si perdonerà ma non sono uso ai viaggi temporali e, in tutta onestà, tendo ancora ad escludere categoricamente che si possa trascendere il tempo, muovendosi secondo volontà lungo il corso dei secoli. Nonostante le mie ritrosie lui è lì. In carne ed ossa. Più reale del reale. Addirittura in anticipo. La prima cosa che mi colpisce sono i suoi occhi. Sono autorevoli. Statuari. Come scolpiti nel marmo. Eppure sono anche guizzanti. Vividi. Veloci. Mi avvicino, tra la calca che sgomita tra i negozi in periodo di saldi. Lui si accorge di me e mi si fa incontro. Mi guarda ed io, da parte mia ricambio lo sguardo, tentando di non dare troppo a vedere l’imbarazzo che sta prendendo il sopravvento. “Buongiorno”. “Buongiorno” faccio eco stralunato. Mi indica un cafè nei pressi della piazza e ci infiliamo lì dentro e dopo aver preso posto iniziamo a parlare. O meglio lui inizia. “Comprendo perfettamente il suo essere stranito, d’altronde non è certamente usuale, tuttavia alle entità spirituali, che sono eterne e dunque atemporali, è consentito di viaggiare nel tempo, in quanto nella spiritualità non esiste nè un prima, nè un dopo. Dunque la mia presenza è molto più normale di quanto potrebbe sembrare. Peraltro si dice sempre che i grandi filosofi i loro pensieri sono normali, per cui..” E si lascia andare ad un generoso, ma decisamente compito sorriso. Io scopro i denti. Ma la riverenza mista a disagio mi sta pietrificando. L’intervista è già iniziata, senza che io me ne rendessi minimamente conto. Osando naturalezza dico ” Maestro, lei è stato di certo una delle figure centrali della storia della filosofia, si potrebbe definire come un padre della materia, ecco ritiene che il suo pensiero sia ancora attuale?”. “Domanda interessante. Acuta.” Mi guarda con un ghigno beffardo ” di certo la mia influenza sulla filosofia a me successiva, partendo da Plotino e San Tommaso, è evidente e ingente. Del resto anche Kant riprese, rimodernandola, a suo dire almeno, la mia teoria delle categorie. Ciò detto, ritengo che ancora oggi, per quanto possa sembrare obsoleto ai più, il mio pensiero sia ineludibile per chi si voglia cimentare nella ricerca filosofica”. “Non crede dunque che sia possibile fare filosofia prescindendo dalla summa delle sue opere?” Gli chiedo facendomi finalmente un po’ di coraggio. “Assolutamente no” dice mentre ferma il cameriere per ordinare. ” Due caffè”. “Veramente” ed esprimo con un cenno una pacata rimostranza ” il caffè qui è ottimo e poi l’ora si confà perfettamente con un caffè, vedrà”. “Va bene mi ha convinto” cedo, d’altronde che altro avrei potuto dire? “Lei ha polemizzato e rotto con gli accademici a causa della natura delle idee, che, per colpa della loro pluralità, non posso assolvere al ruolo di principio ultimo, che abbisogna, secondo lei, di una semplicità fondamentale. Potrebbe dunque spiegare la sua visione cosmologica? È come si differenzi da quella platonica?” ” Partiamo col dire che le idee non possono spiegare il mondo in quanto non lo riducono ad un principio, ma, al contrario, proliferano e sono tante, o quasi, quante sono gli enti. Per cui è stato per me necessario elaborare una nuova visione cosmologica e ontologica, la quale fosse in profonda distonia con il modello platonico. In questa direzione ho riportato l’ente reale e l’essere al centro della mia teoria. Infatti non è nelle categorie che si trova il massimo grado d’essere, ma proprio negli enti, di cui queste non sono che determinazioni. Capisce dunque il cambio radicale di piano. È il reale al centro della mia ontologia, non un fantomatico mondo delle idee, che non sono altro che predicati universali in cui si è ritenuto ,erroneamente, si potesse trovare il massimo grado di ousia, di sostanza. Da qui prende le mosse il discorso più prettamente cosmologico e metafisico. Gli enti sono soggetti al cambiamento, che è il passaggio da potenza ad atto. Dunque è necessario porre un motore che permetta questo passaggio. Perché se un ente possedesse già la forma in atto in potenza non sarebbe necessario il cambiamento. Dunque per non far proseguire all’infinito la catena di motori è necessario porre un motore in mobile, che è pura forma e dunque puro atto. Pensiero di pensiero. Questo muove e orienta il cambiamento nel mondo, senza tuttavia avere un rapporto diretto con esso. È infatti l’amore verso il motore immobile e l’attrazione a guidare il cambiamento.” CONTINUA.
Resistere. Nove lettere. Quattro sillabe. Una parola. Una pregnanza profonda, che trascende l’animo umano e si fonde con la natura stessa dell’umanità. Resistere. Dal latino “re”, prefisso indicante la ricorsività di un’azione, e “sistere”, fermarsi. Resistere. Sin dagli albori, dai primi sussulti della sua esistenza l’uomo ha dovuto essere resistente. Ha dovuto combattere per autoconservarsi, per sopravvivere in un contesto intimamente avverso.
Per non soccombere alla selezione naturale Darwiniana. E così nel corso della sua storia, nel dipanarsi della sua epopea le fortune del genere umano si sono basate su questo istinto. Sulla pertinacia. Sulla resistenza. Sulla continua voluttà di espandersi, di protendere le proprie capacità. L’uomo per esistere deve continuare a muoversi, a lottare. Che ne sarebbe dell’uomo se si fosse arreso dinnanzi alle calamità che hanno funestato la sua storia? La resistenza, tuttavia, non è solo una protezione verso le avversità esterne, ma anche verso se stessi. L’uomo deve resistere anche e, forse, prima di tutto a se stesso.
Deve resistere alle sue fragilità intrinseche. Deve distogliersi, sottrarsi dal vortice tumultuoso che lo attira, e lo imprigiona nelle sue spire. E’ il gorgo melmoso della filautiìa, lo spasmodico culto di sé, dell’egoarchia, della protervia vanagloriosa e funesta. Dell’autocrazia dell’ego. Si deve, in sintesi, salvare dal parossismo degli istinti umani. Dalla bestialità insita nell’uomo. Dal degenerare dell’essere umano, che si sostanzia nel amplificazione dell’animalità propria di quest’ultimo. Di fatto è certo che l’uomo sia uno Zoon, come già Aristotele aveva insegnato, ma lo è altrettanto che sia molto di più di questo. E che il suo essere uomo consista, in ultima analisi, proprio nel superare tale animalità. Nel suo essere, Nietzsche ci perdonerà, un oltre-animale.
In tale accezione la resistenza diviene l’affermazione e la conditio sine qua non dell’essenza umana, e dunque si identifica de facto con quest’ultima. E’ importante ribadire e asserire questo concetto oggi. Nella contemporaneità, infatti, pare aver perso di pregnanza e anche di rilevanza il concetto di resistenza. Ritenuta, dai più, non necessaria. Ridondante. Superflua. Così l’umanità è scivolata nelle sue profondità, scordandosi le sue peculiarità. Dimentica di se stessa. Così la resistenza e il resistere acquisiscono nell’attualità un’importanza maggiore, un significato cruciale. Un passaggio obbligato per infrangere le catene dell’alienazione, che da anni imprigionano il genere umano, e riappropriarsi dell’essenza umana. Perché l’uomo per essere tale deve resistere. Combattere. La resistenza è, dunque, la più pura affermazione dell’umanità. La testimonianza dell’eccedenza specifica dell’essere umano. L’uomo esiste solo nella resistenza.
“Sono l’impero alla fine della decadenza”.Asseriva , con vigoria stentorea , qualche anno fa’ Paul Verlaine. Sintetizzando un diffuso sentimento di disfacimento della società coeva. Erano le ultime luci dell’800. Già potevano avvertire ,i più acuti, le avvisaglie della guerra. L’antagonismo dei popoli. Le lotte intestine all’europa dovute alla tensione dell’espandersi. Inutile nascondere il parallelismo con l’oggi. Anche oggi ci si trova dinnanzi ad un sentore decadentista. Anche oggi sembra di sentire gli ultimi gemiti della società occidentale.
E se pure non si vuole essere tanto tranchant, non si potrà, di certo, negarne la crisi imperante.Sconvolgente. La più distruttiva, che la contemporaneità abbia mai dovuto affrontare.Difatti non si è solamente dinnanzi ad una nera e pestifera crisi economica.E’ in discussione il primato occidentale. Il nord del mondo rischia di non essere più tale. Di non essere più al centro, là dove si era messo da sé nel corso dei secoli. Squassato dalla precarietà. Assediato dal debito. Dal terrorismo e dalle guerre. Agonizzante. Tenta di difendere antichi privilegi. Invece di evolversi di aprirsi verso il resto del mondo, unico angusto pertugio verso la salvezza, si riscopre conservatore. Reazionario. Proibizionista. Lo stato economico, di certo, ha avuto una parte rilevante in questo processo di disfacimento. La crisi,infatti, che non è di sovrapproduzione, ma strutturale, demolisce i principi su cui si era basto il sistema produttivo occidentale.
Ha messo in ginocchio la finanza. Distruggendo intere economie. Dando l’idea di quanto l’industria improduttiva sia divenuta, negli anni, ipertrofica e sregolata. E’ riuscita ad affamare l’occidente, mostrandogli le estreme conseguenze, denunciate qualche anno fa’ da Krugman e prima ancora a gli albori dell’economia di capitali da Simonde de Sismondi, di quel capitalismo,in cui per anni si è crogiolato senza curarsi di nulla. Tuttavia non è a questo che si limita il decadimento. Non è solo una decadenza economica. Tutt’altro. Si è, innanzitutto, dinnanzi ad una crisi di stampo identiario-culturale. Ed è qui che affondano le radici del disfacimento della società contemporanea. Nella mancanza di identità e di cultura. Un accento va, per forza di cose, posto sulla parola identità, che non è e non può essere intesa nell’accezione in cui viene comunemente imbrigliata dai politici e pensatori coevi. La politica nazionalista la ghermisce, la rapisce e la tiene prigioniera nei suoi scopi. Nella sua dialettica capziosa e prevaricante. L’identità non è attanagliata o messa in pericolo dalla società multietnica.
Nè è qualcosa di esclusivo, ma, semmai, l’esatto opposto. L’identità è inclusiva. Viva. Organica. Si alimenta di contaminazione. Non è l’Islam a assottigliare la cultura e il sentimento identitario occidentale. L’occidente sta decostruendo se stesso. Si assiste ad un’auto-decomposizione. Un suicidio. Si è scelto di far regredire tutto nell’ottica del profitto, di generare un sistema svuotato di valori. Più mercificatore che nichilista. Il nichilismo è, infatti, la morte delle ideologie. L’uccisione degli idoli, che Nietzsche annunciava trionfante dal pulpito della “Gaia Scienza”. La mercificazione è, al contrario, lo svilimento. L’annullamento del sistema valoriale. L’azzeramento dell’umanità. Lo svilimento delle attività culturali. Artistiche. La morte della cultura, ed in sintesi la morte della società progredita. Infatti essa è, e non può non essere, prodotto di una civiltà avanzata. Sviluppata. Come già evidenziava la lezione aristotelica. L’occidente in decadenza ha perso, prima ancora della solidità economica, la sua base culturale artistica. L’ha immolata in nome di una società consumistica e globalizzata, che, invece, di essere scambio di culture è non cultura. E’ la morte delle identità. Dunque dell’occidente stesso. Ed è fisiologico, che, in tale prospettiva, esso risulti indebolito e alla completa mercè di popoli connotati da una forte appartenenza etnico-culturale.
Per questo trema di fronte a ISIS, che, peraltro, nasce dalle orride campagne imperialistiche occidentali. Perché incarna l’unità identitaria. Mette in luce tutta la fragilità dell’occidente. Ferito. Disunito. Lacerato. Ciò, che è più grave, è che, in tale situazione, nessuno sembra trovare e neppure cercare una soluzione, la quale non si risolva in un becero e chiuso conservatorismo. E’ questa l’innovazione tanto sbandierata? Sembrerebbe, al contrario, di seguitare a traccheggiare in un circolo vizioso. A sbattere in un vicolo cieco.
E’ materia nota quanto Platone ed Aristotele fossero in disaccordo su alcune teorie, su di una però sembrano trovare pace: il concetto di μίμησις intesa come imitazione. Ci riferiamo in particolar modo all’imitazione della realtà e della natura che è il fondamento, secondo l’estetica classica, della creazione artistica.
Ogni forma d’arte sarebbe così un’attività di μίμησις .
Nessuno spazio per il filtro speciale con cui l’artista setaccia la realtà, nessuna lode all’animo sensibile di colui che, unico fra tanti, è in grado di cogliere nella banalità noiosa il soffio grazioso e salvifico della bellezza sovratemporale. Chi crede di intendere d’arte e di praticarla risulta essere poco più che un illuso copione.
Tanto peggio poi se, conversando amabilmente con Platone in un pomeriggio di mezzo autunno, viene fuori la teoria secondo cui le cose, già di per sé simulacri imperfetti della realtà delle idee, siano quindi copia di una copia quando riprodotte da rappresentazioni artistiche.
Chissà se il fotografo Richard Tushman quando ha deciso di riprodurre in pellicola i dipinti di Edward Hopper (seppur distanziandosene per luce e colori) abbia dimenticato le lezioni di filosofia liceale o se, semplicemente, sia stato allettato dall’idea di essere copia della copia della copia, anello di un circolo virtuosamente infinito che connette l’uomo al tentativo di essere natura.
Non parlate. Credete di farlo. Ma non lo fate. Tutt’altro. Nè, tantomeno, possedete il linguaggio. Altresì potreste con una certa sicurezza asserire il contrario. È la lingua ad essere vostra padrona. Dite, infatti, chi tra di voi è nato già parlante? L’uomo non nasce con la parola, invece l’apprende nel tempo. Il linguaggio, dunque, non è insito nell’uomo e neppure è connaturato alla sua natura.
In parole povere ed in barba ad Aristotele, seguendo il solco tracciato da Heidegger prima e da Gadamer dopo, non è il logos a differenziare l’uomo dalle altre bestie. Egli non si distingue per il suo eloquio. La sua disposizione al discorso e all’asserzione, peraltro, non implica alcuna conoscenza. L’essere umano è predisposto alla parola, ma da ciò non ne segue necessariamente il parlare. Così come dalle altre attitudini umane non procedono meccanicamente delle azioni. A ciò si aggiunga che l’uomo non può possedere il linguaggio più di quanto non possa possedere la fame.
Il comunicare, infatti, si erge dinnanzi al l’umanità come un bisogno atavico. Infatti, pur avendo ricusato, in parte, la lezione aristotelica, comune peraltro a tutta la tradizione filosofica successiva, non si può non desumerne la definizione di uomo nella sua accezione di “Zoon politikon” ( animale sociale). Esso è prima di tutto un ente che esiste in relazione ed in funzione di una comunità. Pur essendo concepibile, infatti, e pure esistente un individuo completamente asserragliato nella sua soggettività, non si può non ammettere che esso si realizzi appieno solo in un contesto societario. In tale prospettiva non è necessario esplicare perché il comunicare, il parlare assurga a necessità ineluttabile. Il linguaggio è, in definitiva, un gioco cui l’uomo è solo invitato a partecipare. Non è l’individuo a condurre le parole.La lingua. Die sprache. L’usuale schema di soggetto e oggetto risulta completamente rovesciato. È l’uomo a doversi piegare. A doversi addentrare nell’impervia selva linguistica.
Il linguaggio non è un mezzo ad uso e consumo del genere umano, nè un’invenzione umana. Citando Heidegger, sperando che non se ne abbia troppo a male, il linguaggio è il linguaggio. E null’altro.
Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l’addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui
Aristotele
La filosofia non dà risposte, al contrario tempesta chi ci si immerge dentro di domande, quesiti, dubbi. Sempre insolvibili. Sempre assoluti ed esistenziali. Questa è la sorte di chi si perde nella speculazione: non poter porre fine ai dubbi che lo attanagliano. Costretto ad una conoscenza mai completa. Mai perfetta, sempre mancante. Una sorta di scienza insipiente che lascia spazio ad una sola certezza, il sapere di non sapere socratico. Tale peculiarità è probabilmente, quasi certamente a dire il vero, all’origine della cattiva nomea che la disciplina si è conquistata nel corso degli ultimi secoli. Degradata a svolazzo pindarico. Svilita. Depredata della sua essenza. Condannata all’inutilità. Così assediati e perseguitati i filosofi si sono rinnegati, dati alla macchia e divenuti raminghi e fuggiaschi. In pochi sono, oggi, quelli che non rifuggono tale appellativo e solitamente costoro sono asserragliati in sistemi monolitici o in nichilistici relativismi, rinchiusi in una nicchia asfittica che impedisce loro di dar vita ad un pensiero radicalmente nuovo. A questo bisogna rispondere, questo va contrastato.Ricusando l’accusa di inutilità pratica . La filosofia è astrazione, ma non è pura conturbazione, al contrario è ben radicata a terra, con saldi legami alla concretezza. La riflessione filosofica ha funto, negli anni, da fondamento teoretico dello sviluppo tecnologico e scientifico. Che ne sarebbe stato della scienza moderna senza il positivismo, l’illuminismo o il neopositivismo? Tali correnti di pensiero ne hanno indirizzato il movimento evolutivo, dando loro le mosse e indicando il percorso. E questo fenomeno travalica l’ambito scientifico, assolutizzandosi. La filosofia mostra il cammino, lo segna. E’ la teoria sottesa. Peraltro la riflessione, la speculazione punta a superare la cortina superficiale che ricopre le cose del mondo. E’ un continuo tentativo di svelare la realtà, di squarciare il velo di Maya, divenuto una vera e proprio ossessione per Schopenauer. Proprio questo movimento le conferisce la sua fondamentale necessità. Andare a ricercare nel profondo qualifica il filosofo, gli permette di approcciarsi diversamente alle cose del mondo. Di intraprendere un rapporto radicalmente differente con la società. Una prospettiva che guardi alla profondità degli elementi, che li analizzi a fondo, che permetta di vivere a pieno. Lasciandosi avvolgere dal flusso vitale. Riuscendo ad estroflettersi verso l’altro. La filosofia è necessaria, astratta, certo, ma con ripercussioni enormi sulle pieghe del reale. Filosofare è la chiave per un mondo celato. Un mondo più pregno, denso. Più vero. Autentico.