Paratesto. Le poltrone bérgere in stile finto Luigi XVI che campeggiano in copertina in primo piano davanti a una parete tapezzata da una carta da parati con motivi verticali seriali, richiamano da una parte suggestioni gozzaniane (“le buone cose di pessimo gusto”) che non ci vietano di immaginare una signorina Felicita annoiatamente accomodata, e fanno pensare anche un po’ alla “Classe morta” di Kantor, in cui l’assenza si rende molto più inquietantemente pesante di qualsiasi presenza. Le tre madri (e così chiudiamo un cerchio di rimandi impossibile giungendo pure dalle parti di Argento) non ci sono, ma ci sono. Eccome se ci sono! Poi ok, la scelta cromatica dell’arancio a prefigurare il momento crepuscolare dell’esistenza.
Testo. Il ribaltamento linguistico (un sultanato femmineo), quasi un sabotaggio se si tiene presente la cultura fortemente androcentrica di riferimento del termine, che si traduce poi in un autentico capovolgimento concettuale stabilisce a partire dal titolo del nuovo romanzo di Marilù Oliva la pervicacia dell’autrice nel rimanere legata alle narrazioni di un universo ancora una volta femminile, dopo le vicende trilogiche della Guerrera in “¡Tu la pagaras!”, “Mala suerte” e “Fuego” e la silloge “Nessuna più” (antologia di racconti contro il femminicidio) in veste di curatrice. Un vincolo senz’altro forte, ombelicale, necessario nel caso della Oliva e del suo milieu letterario, un canale privilegiato attraverso il quale comunicare un groviglio di sensazioni interiori, dipanarlo, farne letteratura.
Le Sultane descrive l’ineluttabilità della catabasi di tre vecchiette bolognesi, Wilma, Mafalda e Nunzia, incamminatesi sullo scosceso viale del tramonto ben poco inclini alla discesa del crinale, raccontata con i toni agrodolci ora della commedia, ora del dramma in una miscela alchemicamente calibrata dei registri espressivi. L’utilizzo stesso della contaminazione di generi, laddove vi si infilano come punteruoli acuminati sprazzi di noir e di thriller tendente finanche all’horror, produce un effetto di totale sbalestramento nella lettura e questa è solo una delle cifre meno sorprendenti dello stile dell’autrice che tuttavia contribuisce a generare atmosfere malsane funambolicamente a metà strada tra il grottesco e il melodramma attraverso le quali si intrecciano immaginari altri, letterari e cinematografici insieme (come un sedimento giacente sotto strati di memoria collettiva, risputato in superficie), che vanno da “Le due zittelle” di Landolfi a “Arsenico e vecchi merletti” di Capra, a “Delicatessen” di Jeunet e Caro, ma soprattutto al “Gran Bollito” di Mauro Bolognini splendidamente ridisegnato sulla figura tragicomica, tenera e terribile, della Cianciulli, la famigerata saponificatrice di Correggio.
In realtà, ed è questo il grande merito del romanzo, il gioco dei generi che si rincorrono per tutto il libro funge da pretesto per una prolungata meditazione sul tempo e sulla solitudine. Il tempo che era e non è più, il tempo dello sfavillare ingenuo e inconsapevole della giovinezza (la güpiere di Wilma) trasfigurato dall’inerte liquidità del tempo presente, fatto di giorni sempre uguali scanditi dalle amare liturgie del quotidiano, il tempo raggrumato nell’intonaco degli interni degli androni nelle abitazioni condominiali della Bologna vecchia che sta per essere scrostato via dalla vita e dagli eventi. Il tempo di un passato révenant e di un dolore ad esso legato che torna a far visita implacabilmente sotto forma di caro estinto (Juri, il figlio di Wilma) e che ognuna delle tre settantenni tenta di sublimare come può, di accettare con serena disperazione: il rifugio nella materialità (la “roba” di verghiana memoria) e dunque nel pragmatismo e nella sicurezza degli oggetti e del denaro di Mafalda, l’abbandonarsi all’ipotesi di un improbabile fantasma erotico da parte di Nunzia.
Tempo fondamentalmente di un dolore, enorme e inalienato, quello dei rimpianti, delle incomprensioni e dell’incomunicabilità esistenti nel rapporto tra genitori e figli, urlato soprattutto nelle pieghe meno visibili di tale rapporto e nel susseguirsi lacerante dei non detti. Dolore di un tempo che scorre al ritmo dell’inesorabilità e che neppure queste tre Parche, ipotiposi di un sentimento caduco del tempo, riescono a far filare come desidererebbero, pur se per una manciata di giorni i destini di qualcuno sortiscono attraverso le loro mani. Questo dolore latente ma presentificato e feroce come lama di coltello ad ogni sfogliar di pagina del romanzo, e dal quale la scrittura “amniotica” di Marilù Oliva, con le sue empatiche alternanze di prima e terza persona, con la tenerezza arrischiata degli erlebte reden nella prossimità alle tre amate vecchine, vorrebbe allo stesso tempo preservarci. Perché bisogna immaginare Sisifo felice.
Coordinate. Elliot Edizioni, Roma.