Ristrutturazioni – Roberto Sturm

by senzaudio

Nell’epoca e nel Paese delle speculazioni e dell’abusivismo edilizi, della cervelloticità semantica nel merito giurisprudenziale in materia urbanistica, testimone impotente di un declino etico e deontologico in generale relativo alle pianificazioni urbane (piani regolatori, varianti, delibere selvagge), funziona bene in “Ristrutturazioni” di Roberto Sturm (ed. Pequod) la metafora architettonico-urbanistica per descrivere un paesaggio umano in via di fatiscenza, prossimo al crollo, allo sprofondamento, destinato all’inesorabile voragine.

Anzi, la descrizione è quella – senza alcuna pretesa di apoditticità sociologica – di un cedimento strutturale alla base dell’ethos, dei comportamenti e degli atteggiamenti nei rapporti di interazione del quotidiano. Istantanee di un termitaio che si agita impazzito erodendo dalle fondamenta quei principi portanti di convivenza pubblica e privata nelle relazioni tra individui. La tragica sensazione di un cataclisma già avvenuto e la consapevolezza di sapersi smarriti aggirandosi tra le macerie dell’essere (umani).

Uomini e donne anche e soprattutto calati in ruoli incompiuti e incompresi di amici e amanti, genitori e figli, griglie esistenziali che intersecano vite e vicende nell’everyday living allacciandosi più o meno inconsciamente a possibilità emotive, tentativi malriusciti di esistere, di affermare una smozzicata presenza, lasciare una traccia del proprio passaggio. Chiasmi involontari e tuttavia inevitabili tra persone, cose e situazioni sullo sfondo di una geografia anonima, (s)provincializzata. Figure monocrome e bidimensionali, sagome che si muovono nell’inerzia dei sentimenti e del desiderio. Amore, gioia, dolore, sembra tutto svuotato di senso nella narrazione arida, disossata, orizzontale di Sturm. Non esistono dinamiche reali all’interno del romanzo, piuttosto una stasi del senso puntellata dalla coazione a ripetere dei personaggi che lo abitano: coppie instabili, persone che si lasciano e si prendono, pensieri e parole che abdicano alla comunicazione.

Il tempo è quello della routine spersonalizzante, dell’anonimia o anomia raggiunta dal paradosso del metodo, letteralmente dei modi di vivere pre-regolati, pre-ordinati eteronimamente dalle leggi non scritte del post-moderno dominate dalla presenza debordante dell’assenza di sentimento. Sintomi di un malessere endemico testimone di identità frammentate, passive, colte nella più flagrante inautenticità dell’ipercineticità indotta, del desiderio irreggimentato, propugnata con l’illusione che vivere non sia solo un riempitivo del tempo materialmente trascorso.

Complesso dunque ogni tentativo d’intervento che possa servire da “ristrutturazione” di una sfatta planimetria dell’interiorità. Tanti gli interior designer che deambulano nei lussureggianti sottoboschi urbani e umani tra aperitivi, cene e feste à la page propagando filosofie ed estetiche del vuoto spinto, poche però le ipotesi di solidità relazionali e, prima ancora, identitarie in questi tempi di s-fondamenti ontologici. Difficile ristrutturare ciò che non possiede fondazione come, con buona pace di Recalcati, l’istituto familiare nel quale i figli risultano ormai figure estrinseche supplementari come giustificazione di una parvenza di legame, o peggio ancora come strumento di ritorsione nella meschinità delle sempre più frequenti guerre coniugali.

Interessante il processo di avvicinamento, di condivisione o meglio di coabitazione narratologico nello stile di Sturm, “edificato” sulla simmetria e l’attiguità tra 3a e 1a persona, laddove non ci interessa davvero nulla dell’onniscenza dell’io narrante in terza persona poiché nulla di decisivo può contribuire ad aggiungere al piatto diorama umano come quello evocato dalle melanconiche note di Jacques Brel (“Le plat pays”) che si va dipanando, limitandosi alla constatazione di un esistente drammaticamente pericolante.

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