Piccole distopie di tutti i giorni

by Angelo Orlando Meloni

“Sulle cause e i motivi che portarono alla fine si sarebbero potuti scrivere interi capitoli nei libri di storia. Ma dopo la fine nessun libro venne scritto più”, così la quarta di copertina di La terra dei figli, il nuovo, attesissimo fumetto di Gipi. Una cupa avventura post-apocalittica che ha per protagonisti due ragazzini la cui casa è una catapecchia galleggiante. Attorno a loro il nulla o quasi. La natura sta morendo; il cibo scarseggia e quel poco che si trova spesso è tossico; la società non esiste più; i superstiti sono diventati feroci barbari, analfabeti e boccaloni, che credono nel “Dio Fiko” e si esprimono attraverso una neolingua piovuta sulla terra dopo la dissoluzione dei social network. Per sopravvivere nell’inferno in cui si è trasformato il mondo, i due ragazzi sono stati cresciuti con estrema durezza. L’unica possibilità per assicurarsi la sopravvivenza è disumanizzarsi sempre più, rendersi simili a cose, a mostri, nessuno spazio può esser lasciato agli affetti. Ma allora perché tutto quell’interesse per le pagine del diario paterno, dato che i ragazzi non sanno leggere? Perché tutto quell’affanno per aiutare una sconosciuta incontrata per caso, se l’amore e la tenerezza sono stati banditi?
La terra dei figli è un romanzo di formazione che parla di un futuro troppo tremendo e grottesco perché possa accadere davvero, ma che forse sta accadendo davvero nell’universo parallelo a pochi chilometri da noi, in periferia, o in una nazione lontana, devastata dalla guerra e dalla miseria.

Quelli che consigliano non solo di leggere ma anche e soprattutto di rileggere, la sera dormono tranquilli? Siamo sicuri che la rilettura sia un’arte così nobile? Non è meglio una dolce ignoranza a una crudele verità? Perché dovremmo andare a rileggerli, i classici, per poi scoprire di esserci esaltati e innamorati grazie alle ripetitive parole di un tizio che violava lo show don’t tell a ogni piè sospinto ed era incapace di raccontare una storia senza anticiparti come sarebbe andata finire, più o meno come il figlio cinquenne del mio vicino di casa? Non è meglio preservare il ricordo del capolavoro e vivere felici? Prendiamo per esempio Woobinda di Aldo Nove. C’è poco da dire, per lo meno per la mia generazione quello è un classico. Poche storie. Un libro “niente sarà più come prima”. Che ci ha turbati e allo stesso tempo ispirati. Come una ventata d’aria fresca per le patrie lettere, ma procurata tramite uno squarcio. E allora perché rileggerlo? Perché andare a scuncicare il ricordo del tempo che fu, quando ancora ce la facevamo a reggere l’alcol e a ciondolare in giro senza costrutto fino alle tre di notte? Leggiamoci piuttosto Anteprima mondiale, il seguito di Woobinda, un libro nel quale in copertina campeggia la frase azzanna entusiasmi “il seguito del romanzo di culto che ha segnato una generazione”. Eccola insomma la verità del nostro tempo, o una sua adeguata rappresentazione, qualcosa che Aldo Nove aveva magistralmente raccontato già vent’anni fa: viviamo una piccola distopia, nella quale gli editori si spaventano di usare la parola “racconti”, nella quale i lettori scappano quando leggono la parola “racconti” e in cui Aldo Nove ha scritto la vita di san Francesco. Se vi state chiedendo “costui mena il can per l’aia”, avete ragione, se state pensando che sono confuso, avete ragione due volte, ma se invece volete sapere com’è ‘sto benedetto libro di cui vado cianciando, ebbene, da me non saprete altro. Amo troppo quell’incredibile capolavoro di Woobinda per pensare a un confronto. Farò come Fantozzi quando gli chiesero com’è finita la battaglia di Maratona: “Abbiamo pareggiato!”

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