Oslo blocco boyz – Zeshan Shakar

by Gianluigi Bodi
Zeshan Shakar

Possiedo questo libro da un bel po’ di tempo, nascosto tra le pile di libri. Quando è entrato a casa mia l’ho sfogliato, mi sono fatto un’idea, mi faccio sempre un’idea dei libri che prendo o che mi regalano, mi serve per capire quando è il caso di leggerli, ho la presunzione di credere che un libro bello, al momento sbagliato, sia un fallimento identico a un libro pessimo. Nei giorni scorsi ho visto girare nei social un libro Einaudi di cui ora non ricordo il nome (ma nel ragionamento che farò la cosa non ha importanza), se ne parlava con toni entusiastici. Sono andato in libreria, l’ho sfogliato, ho visto che l’autrice ha creato una struttura del romanzo in cui tutte le parti narrate sono email di varie persone. Non c’è una narrazione lineare. Mi sono ricordato di “Oslo blocco boyz“, mi pareva che più o meno la struttura fosse la stessa. E’ simile. Il momento giusto, per qualche motivo, è arrivato. Ho letto il libro di Zeshan Shakar e mi è piaciuto davvero molto.

A metà degli anni novanta ho visitato la Norvegia: Oslo e Trondheim. Se della seconda ho ricordi splendidi, della prima ho poche immagini sparse. Erano i giorni di poco successivi a Natale, le luci della città brillavano eppure ricordo tanto, tantissimo grigio. Non credo di aver bazzicato il quartiere di Stovner, nè tantomeno di aver percorso Tante Ulrikkes vei (T.U.V) eppure, mentre leggevo le pagine di questo romanzo riucivo a raffiguarmi il panorama. L’idea che poca distanza di fossero i boschi verdi, i monti innevati, la gente che carica gli sci di fondo in tram e che poi se li mette ai piedi per andare in ufficio. Tante Ulrikkes vei sembra sempre troppo lontana da quel panorama idilliaco, sembra essere composta solo ed esclusivamente di catrame e cemento.

E in questo catrame e cemento vivono Mo (diminutivo di Mohamed) e Jamal. Hanno deciso di partecipare a un progetto che si prefigge di capire come vivono i giovani di Stovner. Mo, dei due, è quello più istruito, scrive lunghe email al responsabile del progetto. Jamal invece parla a un dittafono. Raccontano entrambi il loro rapporto con il proprio quartiere, con i bianchi, con gli altri emigrati, con le istituzioni, la scuola. Ma raccontano anche i propri desideri, i propri sogni, le paure, le delusioni.

Mo e Jamal hanno molte cose in comune, per iniziare il quartiere e gli spazi che vivono, ma in realtà, quello che spicca, è la diversità di vedute sulla situazione che vivono. Mo si vuole integrare, non solo, vorrebbe essere come gli altri, come i norvegensi bianchi, sogna un auto di lusso, dei bei vestiti, una ragazza norvegese di buona famiglia. Sogna di essere uno tra i tanti, di non essere un emigrato, un “diverso”. Quando scopre che i professori parlano di lui e di quelli come lui alle loro spalle Mo subisce un trauma. Fino a che era piccolo non esistavano “gli altri”, erano solo un gruppo di bambini che giocava fino a tardi. Cosa succede quando si diventa grandi? Cosa succede nello sguardo dei vicini quando si cresce?

Jamal invece ha un moto di rifiuto, adora l’hip hop e il rap, infarcisce il proprio parlato di termini della sua lingua di origine, è un Boy in da hood”Jamal invece ha un moto di rifiuto, adora l’hip hop e il rap, infarcisce il proprio parlato di termini della sua lingua di origine, è un “Boy in da hood”, vuole esprimere la propria originalità, ma anche un sentimento di repulsione nei confronti degli altri. Non può essere sè stesso e contemporaneamente uguale agli altri. Non solo ai norvegesi, ma anche agli altri immigrati. Non vede nemmeno la questione con un semplice “Noi contro di voi”, ma con un perentorio “Noi contro tutti”.

Il tema che sostiene questo romanzo è quello dell’integrazione. Un tema di cui si sente parlare praticamente ogni giorno senza che sia davvero chiaro come si possa ottenere questa fantomatica integrazione. Mo e Jamal hanno idee che spesso sono diametramente opposte. Mo tenderebbe a farsi assimilare, Jamal a combattere per ogni centimetro della propria cultura. Forse la via giusta sta a metà, ma chi sono io, maschio bianco privilegiato, per poterlo dire? Di certo, quello che fa Zeshan Shakar con questo romanzo è darci la possibilità di riflettere su un tema che non riguarda solo la Norvegia, ma che sta acquistando un’importanza sempre più pressante ogni giorno che passa. Basta aprire il sito di qualsiasi quotidiano.

Mi rendo conto che Stilo editrice non è Einaudi, ma io, se fossi in voi, un’occhiata a questo romanzo ce la darei.

Il romanzo è stato tradotto da Margherita Podestà Heir.

Zeshan Shakar (1982) è cresciuto nel quartiere di Stovner. È laureato in scienze politiche all’Università di Oslo e in economia alla Norwegian Business School (BI). Shakar ha lavorato per diversi ministeri e uffici pubblici, e attualmente è impiegato presso il Comune di Oslo. Questo è il suo romanzo d’esordio: pubblicato nell’autunno del 2017 per la casa editrice Gyldendal con il titolo Tante Ulrikkes vei, ha vinto numerosi premi ed è oggetto di studio e dibattiti. Ha venduto oltre 150.000 copie e da esso è stata tratta anche un’opera teatrale. Nel 2020 Shakar ha pubblicato il suo secondo romanzo, Gul bok.

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