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La tigna – Roberto Contu – Recensione di Annachiara Biancardino

by senzaudio

Alla ricerca della speranza perduta

È il 15 settembre del 1999 quando il nuovo professore di lettere Renato Contro varca la soglia della 5ª D dell’istituto tecnico Dante Alighieri: si apre così La tigna (Castelvecchi 2021), l’ultimo lavoro narrativo di Roberto Contu. Un romanzo coraggioso, che rivela già nella scelta cronologica – inizia il primo giorno di scuola dell’anno spartiacque fra due millenni – la sua vocazione a tirare bilanci. 

Renato Contro (nomen omen) è un insegnante tignoso, che si autorappresenta come la nemesi del professore dell’Attimo fuggente e si impegna dal primo istante a mantenere la distanza dai colleghi e attirare l’antipatia degli studenti (ottenendo, come spesso accade in questi casi, l’effetto contrario). La tigna è in buona parte ambientato a scuola, ma più che un tema la scuola è uno scenario, un osservatorio privilegiato sui meccanismi di intersezione fra generazioni differenti. All’interno del Dante Alighieri le vicende degli studenti diventano lo specchio con cui devono confrontarsi anche gli adulti, così la situazione personale di un’alunna di Contro – Benedetta, una diciottenne incinta alle prese con la scelta più difficile della sua vita – costringe il docente di religione don Andrea a sondare i limiti delle risposte della fede, la preside dell’istituto a fermarsi a riflettere e interrogarsi sui propri fallimenti, e perfino il protagonista, in apparenza indifferente a tutto ciò che gli accade intorno, a tornare sulle cicatrici della perdita di sua figlia e tirare un nuovo bilancio esistenziale. 

Va sottolineato subito l’ampio spazio che la critica letteraria occupa nel tessuto connettivo del libro. Contu non è il primo a cercare di veicolare in una forma narrativa contenuti propri della scrittura critica, ma mi pare che il tentativo sia riuscito in questo romanzo meglio che altrove: qui non risulta forzato, anzi diventa funzionale alla costruzione dell’identità del protagonista. Mentre assistiamo alle lezioni di Roberto Contu sulla filosofia dell’assenza alla base della lirica trobadorica, sulle tecniche descrittive di Nievo e così via, il suo alter ego Renato Contro prende corpo, diventa un personaggio sempre più umano e meno di carta: riusciamo a immaginarlo mentre sfoglia con cura un’edizione dei Meridiani o indica col dito la porta dell’aula a un alunno poco attento. 

Inoltre, il ragionamento intorno ai testi letterari diventa anche motore della storia. Sollecitato da una domanda di Benedetta, il professor Contro sfida i limiti del politicamente corretto (invadenti a scuola come nella società tutta) proponendo in aula la lettura del Pasolini più ostico, quello che io stessa digerisco a fatica, il Pasolini antiabortista. E questo non solo fa crollare l’impalcatura emotiva della ragazza, obbliga chi la circonda a prendere atto di ciò che si sta sviluppando nella distrazione di tutti. 

La lettura del testo pasoliniano mostra di fatto la funzione che l’autore attribuisce alla letteratura tout court: la letteratura deve portarci a guardare quel che non vogliamo vedere. Questo aspetto emerge nitidamente a un passo dal finale, nell’ultima conversazione fra Contro e la preside, che parte dalla ricezione scolastica del Leopardi (e dalla dicotomia fra il Leopardi scolastico e Leopardi quello autentico, infinito e inquietante) e approda a una riflessione sulla produzione letteraria contemporanea. Prendendo spunto dalla presentazione di un libro a cui ha recentemente partecipato, il protagonista (e con lui l’autore) tira le somme sulla propria idea di scrittura (p. 171): 

«[…] Eppure, per quello scrittore o la letteratura ha il coraggio di sondare anche quella profondità del male o diventa irrilevante. Uscito da quell’incontro ho pensato a quelle parole a lungo, tutt’ora ci penso».

«E alla fine a che conclusioni è giunto, professore, mi dica».

«Che quello scrittore ha ragione, e gli va dato il merito di essersi preso la responsabilità della letteratura che conta, ma ho pensato un istante dopo che c’è un passo in più, che se si ha il coraggio di farlo pestare in avanti quel passo si scopre che dopo quel baratro la possibilità del bene comunque persiste, rabbiosa, tignosa della tigna più pura, che il solo poter contemplare l’idea di quel bene, di quella luce, di tutta quella vita, quello è il vero finis terrae del senso umano […]».

In altre parole, Contu ribadisce che la letteratura alta deve farsi carico della ricerca del senso. Mentre la società e la scuola tendono sempre più spesso ad arrendersi di fronte alle difficoltà di interpretazione dell’esistenza umana, la letteratura non può demordere: se smette di cercare un senso smetterà anche di possederlo. 

Ma veniamo all’essenza dello sguardo autoriale di Contu, quello sguardo che mi porta a definire coraggioso il romanzo, e che mi pare sia racchiusa tutta in questa frase: «la possibilità del bene comunque persiste». Nelle recensioni Contu viene presentato come uno «scrittore religioso». Credo si tratti di una interpretazione condivisibile, non solo perché l’immaginario del romanzo si nutre dei testi biblici quasi quanto di quelli letterari, soprattutto perché Contu non si limita a condurre la sua ricerca del senso sul piano della realtà, guarda costantemente al piano più alto della verità. E su quel piano sceglie di indagare anche il male, ma per lo più il bene, nella forma della speranza. Perché, pare voglia suggerirci, non possiamo soltanto bruciare tutto, dobbiamo anche imparare a gestire la bellezza della vita che continua a scorrere ostinata, «tignosa della tigna più pura».  

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