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La splendente di Cesare Sinatti, recensione

by senzaudio
Cesare Sinatti

Arrivato alla pubblicazione presso Feltrinelli dopo aver vinto l’ultimo premio Calvino (ex-aequo con L’interruttore dei sogni di Elisabetta Pierini), La splendente di Cesare Sinatti è una rilettura sia dell’Iliade che dell’Odissea, a cui l’autore – lavorando di aggiunta – accompagna anche i poemi che appartengono al cosiddetto Ciclo troiano, complementi delle storie omeriche.

La splendente, a cui si riferisce il titolo, non è che altri che Lei: Elena dalle bianche braccia, Elena di Sparta, Elena di Troia. La donna più bella dell’antico mondo greco, figlia di Zeus che sotto forma di cigno fecondò la madre di lei, Leda. Elena è centro gravitante della disputa per averla in sposa, prima, che si risolve nel giuramento che, dopo, porterà alla guerra di Troia con sempre lei nodo focale ultimo.

Eppure nel microcosmo di personaggi che Sinatti va a ritrarre manca proprio Elena, sempre sullo sfondo ma mai protagonista che si muove sul palcoscenico dell’azione: significativa è la scena in cui Menelao guarda alle mura di Troia e crede di avvertire la presenza di una figura luminosissima, abbagliante. Elena è lì, c’è, ma è occulta, nascosta, non percepibile.

E su questa linea si muove Sinatti, che va a raccontare i personaggi altri, che da contorno diventano protagonisti assoluti nella riflessione dell’autore sull’eroe ellenico, figura assolutamente tragica in quanto non ha in mano le redini del suo destino, nell’accezione tipicamente greca del termine: un qualcosa di ineluttabile, a cui ci si può ribellare o farsene una ragione. E Sinatti gioca continuamente – nella sua rilettura – su questi due corni del problema dedicando i 24 capitoli del suo romanzo (24 come i libri dell’Iliade, ché niente è lasciato al “caso”) a vari personaggi, che incarnano l’accettazione o la ribellione del destino attraverso le loro vite e atteggiamenti rispetto a ciò che devono affrontare. Il giovane scrittore crea quindi contrapposizioni binarie, per mostrarci quali sono queste vie, e ci fa vedere così – ad esempio – i due Atridi, Agamennone e Menelao: l’uno che si ribella alla storia familiare di pazzia, che ricerca nella vittoria (di Elena, della guerra)  e nella vendetta (l’uccisione del padre ad opera del fratello) la dimostrazione di essere più forte del destino, là dove il fratello Menelao ne incarna l’accettazione passiva, in una continua sospensione di incredulità. Menelao viene salvato dal fratello, Menelao viene scelto da Elena, Menelao viene messo a capo dell’esercito che va a Troia, succube del fratello. Eppure alla fine di tutto è Menelao – che pure si rende conto fin da subito delle mire di Paride sulla moglie e non fa nulla – che abbracciando il suo destino lo compie, là dove Agamennone – per la sua inverecondia e sprezzo degli dei – sarà condannato.

Sulla stessa linea possiamo rilevare il confronto – mai dichiarato, eppure evidente – fra Odisseo e Achille. Odisseo, l’uomo dal multiforme ingegno, sa che una profezia lo condanna a vent’anni di esilio, lontano dalla moglie e da Itaca: prova a ribellarsi attraverso la pazzia – smascherata da Palamede, altro doppio in cui specchiarsi – ma poi si rassegna e per lui diventa alla fine questione di consumare il destino a cui gli dei lo hanno condannato e riconquistare, forse, la libertà attraverso il ritorno a Itaca. In Achille invece c’è un persistente rifiuto del fato, lui che oltretutto ha potuto scegliere fra la morte gloriosa e una vecchiaia fuori dal mito. Achille è staccato dal mondo: la sua invulnerabilità lo protegge quasi dai sentimenti, e carica il suo desiderio di morte di una inumana curiosità, di un’esplorazione di quel dolore fisico che, sotto qualsiasi forma, a lui è negato. Ma questa corazza non protegge tutto, e Achille alla fine ha paura della morte – che per lui arriverà senza alcuna forma di mediazione, in un’unica esplosione di tutto quel tormento mai provato – e della perdita delle persone che ama, Patroclo in primis.

Impressiona fin dalle prime battute la conoscenza e l’agio con cui Sinatti si muove nel mondo greco, andando a pescare storie e personaggi presenti nelle pieghe più nascoste e accessibili più agli specialisti, del mondo del mito e della poesia elleniche. Ma quello che rimane, alla fine della lettura, sono i ritratti umani che riesce a restituire di questi prodi, dei quali – con linguaggio raffinatissimo e mutuato direttamente da quello omerico e dei lirici ellenici – esplora i sentimenti più reconditi, umanizzandoli fino in fondo e dimostrandoci, una volta di più, come alla fin fine gli eroi greci continuino a camminare tra di noi.


Cesare Sinatti, nato a Fano nel 1991, è laureato in Scienze Filosofiche all’Università di Bologna, dove si è occupato principalmente di platonismo. Attualmente è dottorando in filosofia antica presso l’Università di Durham. Con Feltrinelli ha pubblicato La Splendente (2018

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