Home Inchiostro - Recensioni di libri indipendenti e non. La scelta del n°1. Dai guanti di Zoff in poi…

La scelta del n°1. Dai guanti di Zoff in poi…

by senzaudio

Tutti ambiscono a essere il n° 1, in tutti gli ambiti: nel proprio settore, lavorativo o meno, come nello sport. Esistono però alcuni sport in cui la maglia o la calottina n°1, tanto per fare due esempi, non risultano spesso le più richieste perché legate ad un ruolo  difficile, ma che nel calcio è spesso sottovalutato: il portiere.

Eppure la prima cosa che fa di solito un bambino quando gli si porge  un pallone è prenderlo con le mani, ancora prima di calciarlo…

Il portiere però è un mestiere difficile, ha tante responsabilità, se sbaglia difficilmente ha qualcuno che lo salva dal gol subito e soprattutto, nell’immaginario collettivo, una parata non dà la stessa gioia di un gol realizzato. Cosa che molto spesso fa scegliere un altro ruolo al bimbo che inizia a giocare a pallone. Fu così anche per me. A 6 anni giocavo a centrocampo nel San Francesco di Loano, qualche gol lo facevo, ma soprattutto facevo segnare gli altri. Fra questi annovero anche uno molto speciale, uno che  poco più di un decennio dopo  avrebbe calcato i campi professionistici: Marco Carparelli.

Ma più passava il tempo più rimanevo affascinato dal ruolo del portiere: l’unico che ha una maglia diversa da tutti gli altri, l’unico che può usare le mani, l’unico che può stare in area e opporsi ad un rigore, spesso l’ultimo baluardo insomma , l’unico ruolo che ti permette di essere l’UNO fra i tanti.

E così, a settembre del 1982 feci la mia scelta e seguii la vocazione: sì, sarei diventato un portiere.

Zoff_Dino_JuventusIl timing non fu nemmeno poi così casuale: erano infatti passati solo pochi mesi dalla notte mundial di Madrid, notte in cui il n°1 dell’Italia sollevava la coppa del Mondo. Dino Zoff, semplicemente un mito.
Ricordo ancora i suoi guanti, grigi e neri, la U rossa. Furono i miei primi guanti seri da portiere.

Con  quei guanti mi sentivo il miglior portiere del mondo, con l’incoscienza e la fantasia che solo un bambino può avere mi illudevo che quei guanti potessero donarmi dei superpoteri e permettermi di essere come il mio mito e, un giorno, di alzare una coppa del mondo…

Pian piano però si cresce e il gioco spensierato lascia il posto a quello molto più competitivo. Aumenta la concentrazione, aumentano gli allenamenti e cambiano miti ed esempi: seguo molto i portieri della mia Juve, Tacconi prima e Peruzzi poi, ma mi ispiro anche ad altri grandi. Uno su tutti Dasaev, il portiere della Dinamo Kiev e dell’URSS a cui dicono anche che assomiglio per la fisionomia.

Li studio, studio il loro modo di calciare i rinvii, di tuffarsi, di anticipare l’avversario o di attenderlo fino all’ultimo, perché prepararsi è fondamentale, ma cerco nel contempo di ricordare la cosa fondamentale: devo rimanere spensierato e matto come lo sono un po’ tutti i portieri.

Ci vuole in fondo un po’ di pazzia per buttarsi fra le gambe degli avversari (mi costerà un setto nasale deviato, e varie contusioni in tutto il corpo) o anche solo portare sulle spalle la responsabilità di un errore che potrebbe essere fatale per tutta la squadra.

Ne capiteranno, ma cercherò sempre di lasciarmeli alle spalle, tramutando la rabbia del momento in esperienza per non commettere gli stessi errori.

Non mancheranno le emozioni: partite contro le giovanili delle squadre di A giocate alla pari, trofei internazionali e riconoscimenti personali, campionati vinti, convocazioni in rappresentativa (condivisa con altri giocatori diventati poi importanti come Michele Marcolini o Fabio Vignaroli) e addirittura il grande calcio sfiorato (nel ’90 fui molto vicino al Milan).

Tutto passa, ma le emozioni, guardando il passato ora, dopo poco più di 20 anni, resta. Come sento ancora viva l’emozione che provavo a 15/16 anni di spendere i primissimi stipendi guadagnati lavorando come cameriere (in un albergo del mio paese durante le vacanze estive) acquistando il nuovo completo di Peruzzi o i guanti nuovi, sorridendo e sognando ancora che mi potessero dare non so quali superpoteri.

Quello sì che era calcio vero, ricco di emozioni. Un calcio nel quale, per incoscienza o per presunzione, ti sentivi un piccolo Atlante che si portava il peso della squadra sulle spalle. Perché un attaccante che sbaglia un gol spesso lo si consola, un portiere che sbaglia e prende gol invece quasi mai gode di questo bonus.

Eppure le emozioni per una parata salvarisultato o per aver parato un rigore decisivo (era la mia specialità), sono paragonabili alla gioia di un gol segnato. Ed è così che forse ti accorgi che non sei tu a scegliere il numero 1 sulla maglia. Puoi avere la vocazione, ma stai tranquillo che è lui, il n°1, che sceglie te.

Tu forse puoi solo decidere, una volta appese le scarpette, quando indossarlo di nuovo. Perché per un portiere il suo ruolo è un po’ come la navigazione per un marinaio: possono passare anni, ma prima o poi ci ritorni… Io l’ho fatto, a 16 anni di distanza dall’ultima volta e dopo una brutta malattia, ma questa è un’altra storia. Che presto vi racconterò…

Commenti a questo post

Articoli simili

1 comment

Alberto 3 Gennaio 2014 - 18:19

Mi sono commosso leggendo questo tuo racconto; io ho cominciato a giocare in porta a 5 anni, ho vissuto tutto quanto hai scritto con 10 anni di differenza (io ho cominciato nel 1992).

Solo chi ha vissuto la propria vita tra i pali può capire fino in fondo quanto le tue parole.
Parole di passione, parole di amore per un ruolo tanto ingrato quanto unico..

Unico come il numero che portiamo sulla schiena.

Reply

Leave a Comment