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La piccola Battaglia portatile – Paolo Nori

by senzaudio

Era da parecchi anni che non leggevo Paolo Nori, credo dai tempi di Bassotuba e Spinoza. Ho sempre amato la scuola emiliana che da Malerba e Celati ha ricevuto in eredità “la mitologia celibe dei semplici, dei lunatici, degli strambi”, ma, una volta catalogati i vari Cavazzoni, Cornia, Nori, con tutti i Pulitzer che ci sono in giro, difficile sacrificare loro altro tempo al dio delle letture. E così La piccola Battaglia portatile è entrata in casa mia con un codice d’urgenza basso. I libri arrivano in casa del lettore come i malati al pronto soccorso, dove per prima cosa viene loro attribuito un grado d’urgenza attraverso un codice cromatico: per un verde, ad esempio, significa che l’attesa sarà lunga, con la possibilità di essere scavalcato da gialli e rossi; del resto è meglio entrare verde e dover attendere, anche parecchio, che entrare rosso e uscire bianco. Così i libri possono restare in attesa per mesi, a volte addirittura anni, prima di essere sottoposti alla visita; può succedere che, nel corso dell’attesa, risalgano la pila della scrivania o del comodino e che finalmente giungano a rivedere la luce; può succedere che il padrone di casa passando di lì in ciabatte per andare a prendersi un moment, raccolga il libro e finalmente ne inizi la lettura, ma subito lo rimetta in stand-by causa emicrania. Ecco, l’ultimo Nori, dicevo, è entrato in pronto soccorso col codice verde, ma nel giro di pochi minuti è diventato prima giallo, poi rosso. Lo stiamo perdendo, lo stiamo perdendo, ripeteva l’infermiera. Fanc**o i Pulitzer. La sua urgenza si è imposta rapidamente e ho finito per leggerlo su due piedi. Ed è stato un piacere, di quel piacere venato di dolore (mica tanto, tipo le venature del legno) che si trovano nelle storie di bambini. Capitoli brevi, talvolta brevissimi, la prosa saporosa che gira intorno ad anacoluti e iterazioni, battute fulminanti, un grado di intimità che si ha solo con gli amici di lungo corso; che poi, leggerlo dopo mesi passati a sbattere le pinne sulle spiagge di Blanchot e Deleuze, è stato come una boccata di accadueo.
La piccola Battaglia portatile è la storia di un padre e una figlia che ricordano più Totò e Peppino che un padre e una figlia, come dice Nori stesso; i casi della vita lo hanno voluto padre (lontano) di una bimbetta, e il libro è il libro di un padre in crisi di paternità. La piccola Battaglia non è un romanzo, perché a Nori piacciono le ibridazioni e soprattutto gli riescono gran bene: La piccola Battaglia ha il sapore della confessione, della confessione a se stessi. La Battaglia è il nome con cui viene chiamata la figlia del narratore, ed è un personaggio d’altri tempi (naturalmente stiamo parlando di un libro e non sottoporremo il testo a domande tipo “quanta autofiction c’è lì dentro?”); entrare in contatto con la Battaglia ci permette di notare come la letteratura italiana abbia smesso di utilizzare lo sguardo dei bambini preferendogli preadolescenza e adolescenza, e per un motivo molto semplice: il pregiudizio che uno sguardo infantile possa essere al massimo innocente (mentre a noi piacciono tanto le cose pruriginose). In realtà c’è molto di più, nello sguardo di un bambino, e al popolo che si è ritrovato Rodari, Munari e Luzzati fra i piedi, dovrebbe risultare piuttosto chiaro. Ecco, la Battaglia è una bambina con uno sguardo sul reale che è molto più che innocente: lirico, ludico, surreale, tenero, acuto, incredulo, magico, tutte cose che, se le possedesse un intellettuale, l’umanità dovrebbe andargli dietro come al pifferaio magico; la Battaglia è invece, molto semplicemente, il pensiero divergente fatto bambina, e ben presto diviene l’intellettuale di riferimento di suo padre. Il perché è presto detto:

“Ma papà” mi ha chiesto la Battaglia una volta che eravamo al mare “ma l’ultimo uomo che muore come fa a scavarsi la tomba?”

O perché:

C’erano dei disegni, c’era scritto CHIARA, una sua amica, e in fondo, vicino alla finestra, c’era un cuore grande e dentro c’era scritto MAMMA e zAszAa.
“Cosa vuol dire zAszAa?” le avevo chiesto io quando l’avevo visto.
“Eh” mi aveva detto lei “non sapevo come si scriveva papà”.

Del resto:

Alla battaglia, quando aveva cinque anni, avevano regalato una bacchetta magica luminosa e lei l’aveva chiamata Psicologia.

Il padre ascolta Recalcati, ma non gli serve a nulla. Il padre va a un convegno sull’infanzia, e si sente a disagio (perché porta con sé “solo” un libro di Rodari). Il padre non sa bene come fare il padre: cioè sono il babbo, ma sono un babbo che non ha tanto idea di come deve comportarsi, un babbo. Chi si occupa di educazione sa bene che questa è la paura di qualunque genitore “normale”, un genitore non separato intendo, provate quindi ad immaginare la nebbia di un padre anomalo. Nel caso di Nori ci ha pensato la Battaglia che col suo pensiero divergente lo ha tratto in salvo. Naturalmente Nori non difetta di pensiero divergente, è probabilmente la sua arma segreta di uomo e di scrittore, però quella cosa lì, essere un padre anomalo, gli ha messo addosso talmente tanto pensiero convergente da metterlo a tappeto. Fortuna che arriva in soccorso la Battaglia e il nemico è battuto, è vinto (“guarda” le ho detto io “con tutti gli scrittori che ci sono, io non capisco come mai chiamano proprio me”. “Davvero” mi ha detto lei).
Probabilmente lo sguardo dei bambini è passato di moda. Mi riferisco all’arte ma anche alla società. Tendiamo a evitare che ficchino il naso nel nostro mondo. Forse perché ai tempi di Rossellini e Calvino non era poi così orrendo? Forse la rassicurante idea di mettere dei “filtri” (alla tv, al computer , alle conversazioni) ha sortito l’effetto di una grande profilassi del loro sguardo? Di certo quel loro modo di guardare le cose non lo abbiamo fatto nostro, non ci appartiene. Le pandemie di sindrome di peter pan o eterna adolescenza non significano minimamente che abbiamo conservato qualcosa di quello sguardo, significa semplicemente che spesso ci fa comodo regredire allo stadio di chi non ha responsabilità (tanto per i bambini c’è una gragnola di tv tutte per loro, mica devono aspettare La tv dei ragazzi…)
Paolo Nori è il caso a parte più a parte di tutto il librame peninsulare; sembra proprio abbia trovato la formula magica per raccontarci la sua vita senza rompere i maroni. Come dice lui: il mondo è più mondo, dentro un libro. La sua sfida al banale quotidiano è sempre vinta (in questo caso grazie alla piccola Battaglia portatile) e se il regista di Essere John Malkovich decidesse un giorno di girare Essere Paolo Nori, stavolta gli riuscirebbe un gran bel film.

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