Nervoso. Non so definirmi in altra maniera. L’idea che sto per sedermi ad un tavolino con uno scrittore che ho imparato ad apprezzare, che gli farò delle domande, che lui potrebbe trovarle idiote, beh, tutto questo mi rende nervoso. Poi però succede che Björn Larsson sorride, mi accoglie calorosamente, mi dice che se uno ha letto il libro non ci sono domande stupide, e vado incontro ad uno dei momenti più interessanti della mia vita. 
Il “Diario di bordo di uno scrittore” (d’ora in poi “Diario”) è un libro onesto, restituisce l’idea che la letteratura sia una cosa seria che però va presa con il sorriso sulle labbra.
Sì, non si può mai sapere se quello che uno scrittore scrive è buona letteratura o pessima letteratura. Nemmeno gli editori lo sanno. Ad esempio, Beckett è stato rifiutato dagli editori per trent’anni, poi un giorno, la moglie, vede una casa editrice appena nata “«Éditions de Minuit”, Beckett invia uno dei suoi lavori e finisce per prendere il premio Nobel. La letteratura è piena di queste storie, anche Proust ha faticato molto. La letteratura è una cosa seria ma non puoi pretendere di conoscere la ricetta della grande letteratura.
Lei è molto amato in Italia anche se probabilmente non è la nazione in cui viene letto di più.
Sì, probabilmente vendo di più in Germania e Francia, ma mi invitano di meno ai festival e agli incontri con gli scrittori. Mi invitavano di più all’inizio (ride). In Germania e anche in Svezia, dopo l’incontro, lo scrittore viene lasciato a sé stesso, non ci sono le cene, non c’è questa vita attorno allo scrittore. Forse a livello inconscio lascio trasparire la mia preferenza per il tipo di cose che succedono in Italia. In Francia ho lettori e tifosi (alcuni per le ragioni giuste e altri per le ragioni sbagliate), ma l’Italia è speciale. Una volta ad Ercolano ho incontrato una ragazza di venticinque anni che aveva comprato 47 copie de “La vera storia del pirata Long John Silver” per regalarle agli amici. Questo capita solo qui.
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Crede che l’esperienza del carcere abbia influenzato la sua scrittura oltre ad averle fornito una galleria di personaggi interessanti?
Non lo so esattamente, è vero che in carcere ho scritto. Tu hai prima parlato di onestà, quando una persona ha fatto un’esperienza del genere capisce che le apparenze contano di meno, il carcere diventa la realtà, ma mi è anche servito forse per dirmi che una volta nella vita ho preso una decisione forte senza conoscere esattamente le conseguenze. Ho rifiutato il servizio militare d’impulso, senza sapere che sarei dovuto andare in carcere. Anche quando ho scritto “Le origini del male” ho preso uno decisione forte senza conoscere completamente le conseguenze. Mi sono detto che avrebbe potuto essere un libro coraggioso, poi non ho scatenato il dibattito che speravo. Per questo il carcere mi è servito, non capita spesso di trovarsi davanti ad una decisione di questo tipo.
Nel “Diario” risulta molto chiaro che lei pensa molto alle conseguenze dei suoi libri.
Esatto, io non scrivo tanto per scrivere, può sembrare arrogante, ma è così che la penso. Ci sono un sacco di buoni libri lì fuori e ho bisogno di sapere  che sto scrivendo qualcosa di importante. Non è detto che ci riesca, ma ci devo provare.
Ho iniziato molti libri che poi ho lasciato a metà perché non ero convinto che raccontassero una storia importante, necessaria. Ho almeno dieci romanzi di cui ho scritto cinquanta, dieci pagine. Ne “Le origini del male” l’importanza è nello scrivere la storia di un clandestino che non è uguale a tutti gli altri clandestini. Raccontare un fenomeno non è letteratura, per raccontarlo letterariamente bisogna trovare un personaggio e spiegare il fenomeno attraverso di esso.
Mi ha parlato di libri incompleti, ho notato, leggendo il “Diario” che a volte le capitava di iniziare a scrivere un libro mentre ne aveva già iniziato un altro. Non crede che questi libri si influenzino tra di loro? Che un personaggio di un libro faccia visita ad un altro?
Fino ad adesso è andata abbastanza bene, sono riuscito a tenerli separati. Però ho paura di ripetermi, per cui i libri sono abbastanza diversi tra loro. Due o tre volte, recentemente, mi è successo di abbandonare un libro perché sentivo che quello di cui stavo scrivendo lo avevo già detto. Questo potrebbe diventare un problema per il futuro. Modiano (Premio Nobel per la letteratura 2014) ha recentemente detto che ha l’impressione di aver scritto per tutta la vita lo stesso libro. Anche io, a volte, ho questa impressione. Ci sono quegli scrittori che cercano di produrre la perla sempre nello stesso genere, come Marguerite Duras ad esempio. Io non funziono così.
Vedi, io non frequento molti scrittori. Solo alcuni a dire il vero. Però per alcuni di loro è più importante l’idea di essere uno scrittore che quella di scrivere buona letteratura.
Stieg Larsson ad esempio era un grande giornalista, ha combattuto strenuamente contro il neofascismo, poi ha deciso che voleva scrivere un libro, ma non lo ha fatto per i soldi, bensì per necessità. Fortunatamente non ha visto tutto quello che è successo dopo la sua morte (Tra la compagna di Stieg Larsson e la famiglia si è scatenata una battaglia molto poco edificante per il controllo del patrimonio dello scrittore defunto. N.d.R.).
Quando le chiedono che professione svolge cosa risponde?
Io, un po’ scherzando, dico che sono stato uno scrittore e che non so cosa sarò domani. Perché non è detto che il prossimo libro venga mai alla luce. Io sono diventato scrittore a 35 anni con “Il cerchio celtico“, prima non avevo fatto nulla che io consideri vera letteratura.
Nemmeno “Splitter”?
No, era un libro “sbagliato” perché non avevo fiducia nell’immaginazione, era troppo vicino a cose e persone che avevo visto con i miei occhi che poi ho ricreato in maniera diversa perché la mia vita non era tanto interessante all’epoca.
Lei torna molto spesso sul concetto di “immaginare il vero”.
Io penso che la letteratura, diversamente dalle altre attività verbali, debba interrogare le possibilità, quelle possibili ovviamente; Harry Potter è bello, ma non può esistere. Se uno riesce a farlo bene si accorgerà che ciò che ha scritto è già esistito o esisterà in futuro. Io cerco di immaginare qualcosa vicino alla realtà, qualcosa di possibile, non cerco di fare una copia della realtà. A volte mi capita di incontrare delle persone che si riconoscono nei miei libri, per “Il segreto di Inga” ho ricevuto un messaggio che recitava “Grazie di aver raccontato la mia storia. Inga”, purtroppo non ho mai incontrato questa persona, ci siamo solo scritti. Uno scrittore che fa questo tipo di lavoro alla fine anticipa il futuro. Ad esempio, “Il segreto di Inga” di cosa parla? Parla di Snowden, è attuale. All’epoca nessuno credeva che esistesse una struttura come Echelon. Mentre stavo finendo il libro in svedese, mi è capitato di parlare con Emilia Lodigiani (Fondatrice di Iperborea) la quale non credeva a Echelon, pensava che mi fossi inventato tutto. Dopo un mese le ho mandato due pagine di “Le Monde” in cui si raccontava l’inizio dello scandalo.
Lei ha nominato Iperborea, mi sembra uno di quei casi in cui c’è buona sintonia tra editore e scrittore.
Beh c’è una certa sintonia. Emilia (Lodigiani) dice sempre che lei non pubblica scrittori, ma libri. Pubblica libri che lei ama. Io sono l’unico di cui ha pubblicato tutti i libri, forse con me ha fatto un compromesso (ride). Però dice che ha pubblicato ogni mio libro solo perché le è piaciuto. In questo senso sì, c’è sintonia. Emilia, ad esempio, lavora molto alla traduzione, si sveglia di notte perché ha sognato la parola giusta. La traduzione per lei è una cosa seria, un lavoro duro. Io per migliorare l’italiano ho iniziato a leggere i miei libri pubblicati da Iperborea (I libri di Larsson sono tradotti da Katia De Marco) e sono riuscito a riconoscere il mio stile e la mia voce. Forse anche questo conta per il successo di un libro.
Il “Diario” è nato come una sorta di omaggio per i 25 anni di attività dell’editore Iperborea, poi dopo è diventato altro, quasi come se fosse uno sguardo al passato, un voler vedere a che punto stanno i propri figli.
Ne il “Diario” non ho parlato dei saggi, ci sono solo romanzi e racconti. L’ispirazione è venuta dal fatto che per ogni libro uscito in Italia ho fatto parecchi incontri di presentazione. Quando faccio un incontro preferisco parlare del “cantiere” non del risultato finale e non mi piace parlare dell’interpretazione dei miei libri. Alla fine ho fatto una sorta di resumé di tutti questi incontri ed è nato il “Diario”.
Lei scrive, sempre nel “Diario” che non è compito suo dare delle interpretazioni, ma del lettore. Non è geloso?
No.
E non le è nemmeno capitato di incontrare recensioni che dessero interpretazioni palesemente errate e in contrasto con la sua idea originaria?
Sono stato fortunato. In Svezia, ad esempio, le recensioni sono state sempre positive. Anche lusinghiere. Solo in un paio di casi ho ricevuto stroncature forti, ma in uno di questi, ad esempio, si scriveva che probabilmente avevo navigato troppo a lungo e che avevo perso tutto il cervello. Sembrava più un attacco personale. A parte questo caso devo dire che mi è andata sempre bene, non ho mai ricevuto un’email da un lettore che fosse completamente negativa.
Nel “Diario” c’è una frase molto bella che le è stata detta e che rende molto l’idea di come lei viva il suo modo di fare scrittura: “E se un giorno tua figlia ti chiedesse perché non hai scritto quel romanzo per aiutare altri scrittori che rischiano la vita ogni giorno, tu cosa le risponderesti?”
Questa domanda mi è stata posta da un editore norvegese. Io all’epoca avevo paura perché stavo scrivendo “L’occhio del male” che trattava il tema del terrorismo e contemporanemente c’era stata la questione di Rushdie. A quel tempo nessuno aveva paura degli estremisti islamici, non sembravano così minacciosi. Questo editore norvegese aveva lavorato per la casa editrice che aveva pubblicato Rushdie e c’erano stati problemi per alcuni di loro per aver fatto uscire “I versetti satanici”.
Alla fine ho preso la faccenda sul serio, anche nel libro “L’occhio del male” c’è questo dilemma, il libro ha un doppio livello, lo stesso dilemma che prova Ahmed l’ho provato io mentre scrivevo.
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All’inizio del libro racconta di quando, ancora adolescente, cerca di trasferirsi in Australia. Ho interpretato questo bisogno di andarsene come una fuga dalla realtà che le stava stretta, poi quella fuga l’ha trovata nella scrittura?
Dipende, scrivere ha cambiato la mia vita, per il meglio, per fortuna, ma non ho mai cercato una fuga, volevo andare in Australia, sono andato negli Stati Uniti e in Francia non per sfuggire dalla Svezia, ma per conoscere altro al di fuori di quello che già conoscevo. Io mi chiedo sempre cosa sarebbe successo se mi avessero accettato in Australia, o se in America mi avessero offerto una borsa di studio. Mi ricordo una ragazza, una compagna di quando avevo venti anni, lei voleva sposarmi, il padre aveva tredici negozi di scarpe a Madrid, avrei potuto vendere scarpe a Madrid. Nella vita ci sono sempre scelte da fare.
E a noi lettori non resta che ringraziare che le infinite scelte da lei compiute l’abbiano portata a scrivere.
Un sentito ringraziamento a Iperborea  per aver reso possibile l’incontro. Ringrazio inoltre tutto lo staff della Libreria Marco Polo per il supporto costante.
Infine, un ringraziamento speciale a Björn Larsson, per talmente tante cose da non poterle elencare, ma specialmente per non aver mai smesso di sorridere.

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