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Ilaria Palomba – Brama – Recensione di Annachiara Biancardino

by senzaudio
Ilaria Palomba

È per questo che ora sono internata nel loculo della mia depressione, riconosco di essere stata frantumata da un genio, di essere passata sotto la ruota di un gigante fingendomi una strega. 

In questa istantanea della trama scattata dalla voce narrante, mi pare sia racchiusa l’essenza di Brama(Giulio Perrone 2020), romanzo potente e feroce, con cui Ilaria Palomba si conferma una degli autori italiani da seguire con maggiore attenzione.

A raccontarci la propria storia è Bianca, trentunenne perennemente in preda alle angosce abbandoniche. Bianca è la donna che tutti guardano e nessuno vede, quella che si desidera al buio, di nascosto da se stessi («Ma, lo so, è me che bramate, la notte»). Una figura evanescente, come suggerisce il suo nome. Ma la fragilità di Bianca non deve trarre in inganno il lettore: Palomba non crea distinzioni nette fra vittime e carnefici. Al contrario, l’autrice affonda la penna con precisione chirurgica e impietosa, come un bisturi, nelle ferite e nelle ombre di tutti i personaggi, a partire dalla protagonista. 

Bianca è “pura” nel senso che vive ciò che le accade in purezza, in termini assoluti, è incapace di porsi limiti e stabilire confini. Ed è per questo che, fin dalle prime pagine, ammette di avere alle spalle diversi tentativi di suicidio. E sulla pelle le cicatrici degli uomini che sono passati nella sua vita senza fermarsi: bruciature di sigaretta, frustate alla schiena. E accanto a sé una madre egocentrica che tenta di alleviare il dolore della figlia accarezzandolo, senza comprendere che quelle ferite bruciano e non possono essere attraversate se non si accetta il rischio di scottarsi; un padre colto e distante, che vorrebbe salvarla mentre la ammala, che le ha insegnato ad amare l’assenza sacrificando i suoi desideri per donne irraggiungibili sull’altare della famiglia. 

Man mano che avanziamo nella narrazione, Bianca ci tira giù con lei nella spirale di depressione in cui è rimasta intrappolata a seguito dell’incontro col professor Carlo Brama. Un erudito, uno di quegli uomini che per parlare di un divano rosso lo definirebbero cremisi o vermiglio. Dal divano del suo appartamento a Campo dei Fiori, Carlo le insegna le tecniche della metrica e quelle della seduzione, le apre nuovi orizzonti filosofici e musicali. All’inizio il loro rapporto si nutre della gratitudine («Carlo mi ha insegnato tutto») mista a un’ammirazione che sconfina nell’invidia («Desidero essere lui») che Bianca prova per Brama, ma col passare del tempo emergono con prepotenza quelle differenze che dovrebbero condurli alla scelta che nessuno dei due accetta fino in fondo, la separazione. Così la loro interazione dialogica si inaridisce e la disparità di ruolo si accentua: 

Lui sale. Io scendo. Lui continua a salire. Io continuo a scendere. Lui prepara le sue lezioni heideggeriane. Io ricomincio la terapia. Seguo la terapia. Antidepressivo, ansiolitico, stabilizzatore del tono dell’umore.  

Come tutti i personaggi di questo romanzo – soltanto con «l’amica di un’amica» della protagonista, Francesca, talvolta si apre un varco nel buio che domina l’atmosfera della narrazione –, Carlo e Bianca sono entrambi irrisolti e danneggiati. Ma se Bianca è viscerale, Carlo è  votato all’astratto. Se Carlo è un uomo incentrato sul sé, Bianca è una che si perde negli altri («Chissà poi cosa cercavo negli altri che non sono riuscita a trovare in me stessa»). Se Bianca viene da una famiglia piccoloborghese e ha trascorso l’adolescenza fra alcolici e droghe, Carlo ha una famiglia “aristocratica” e si circonda di eleganza. Se per Carlo la scrittura è un esercizio di potere (scrive sfruttando la stessa erudizione di cui fa abitualmente sfoggio per marcare la propria superiorità), per Bianca la scrittura è un esercizio di fragilità (scrive per mettersi a nudo e s-coprire se stessa). 

In altre parole, se a unirli è l’attrazione per l’oscurità (Carlo ha gli «occhi tenebra», è un sadico, è ossessionato dall’idea della morte), a separarli interviene una distanza culturale che Bianca conosce bene: si tratta di una lontananza fra orizzonti di senso, proprio come la frattura che l’ha divisa da suo padre («Quando mi parlava così sentivo di odiare Marx, Bakunin, Toni Negri e tutti i profeti del comunismo che definivano il suo orizzonte di senso. Io volevo parlare del dolore dell’individuo, della solitudine, dell’impotenza, della lotta tra uomo e natura»). Eppure questo veleno continua ad autoinfliggerselo, attraverso un meccanismo crudele di coazione a ripetere, come un disegno che il destino le ha inciso nelle ossa e che lei non riesce a smettere di ricalcare.Durante l’intero corso del romanzo Bianca sfida Carlo a contenere la sua intensità, ottenendo quasi sempre il risultato d’esasperarlo («Cosa cazzo vuoi da me? Non sono tuo padre, non sono il tuo psicologo, non sono il tuo assistente sociale, non sono il tuo educatore, non devi rompermi i coglioni»). E nel frattempo Palomba sfida il lettore a esplorare insieme a lei, attraverso un’esperienza di lettura penetrante come poche, la profondità della psiche, alla ricerca di quella verità di Bianca che è il sottotesto della sua realtà con Brama. Fino all’epilogo perfetto, tragico quanto catartico. 

Ilaria Palomba: Classe ’87, è laureata in Filosofia, ha tenuto laboratori di scrittura creativa nei centri diurni di psichiatria e presso alcune scuole; tra le sue pubblicazioni: Fatti male, tradotto in tedesco per Aufbau-verlag, Homo homini virus (Premio Carver, 2015), Io sono un’opera d’arteviaggio nel mondo della performance artDisturbi di luminositàDeserto. È ideatrice e redattrice del blog dissipatu.blogspot.com in cui svolge una ricerca sul disagio psichico.

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