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Il Popolo di legno – Emanuele Trevi

by senzaudio

Una barzelletta giustamente nota si conclude con l’agnizione di un babbo falegname nel ventre della balena: “Papà, papà!”, urla Pinocchio andando incontro al babbo. “Gesù!!!”, risponde il falegname.

Emanuele Trevi non sarà partito da qui, quando ha scritto Il popolo di legno, ma di certo aveva ben presenti i richiami cristologici di Pinocchio. Pinocchio è un Cristo rovesciato, legno crocefisso alla carne. La Fata dai capelli turchini è il grande amore della sua vita. Il Topo è uno spretato che per campare trasporta frutta e verdura dalle parti di Rosarno, in terra calabrese. Un giorno il predicatore che è in lui rompe le catene in cui è stato imprigionato e il Topo si inventa una trasmissione radiofonica basata su una esegesi molto particolare del capolavoro di Collodi. Il tramite è il Delinquente (un vecchio amico del Topo imparentato con la cosca degli Zii) che lo porta a Tele Radio Sirena. Proprio la ndrina, proprietaria dell’emittente, porrà termine alle avventure del Topo quando un quotidiano nazionale darà troppa risonanza alla sua trasmissione politically incorrect.

I monologhi del Topo, moltiplicati dalla rete, si impongono per la rilettura local ed eretica del romanzo: ogni puntata si apre col proclama viva la Calabria, viva Pinocchio il calabrese, il figlio del falegname; per il Topo Pinocchio è un libro scritto per i calabresi e i calabresi sono il popolo di legno.

Ma noi, fratelli e sorelle del popolo di legno, anche se ci inchiodano i polsi e le caviglie a un banco, e ci costringono con i carri armati ad ascoltare la lezione, noi non impariamo mai nulla. E’ solo una finzione. Anche se siamo lì, siamo da un’altra parte, come Pinocchio.

Per il Topo Pinocchio è un libro mai capito, castrato da una loffia interpretazione pedagogica, come se Pinocchio potesse in qualche modo essere affiancato a Cuore per meri motivi cronologici. C’è bene altro, oltre all’happy end, anzi, proprio la redenzione finale, la trasformazione del burattino in bambino, è al centro della sua esegesi. La filosofia di fondo è che nella vita bisogna essere quello che si è, dando minor spazio possibile alle maschere della civiltà; solo riconoscendo la propria elementarità, solo riducendo le buone intenzioni (tramutarsi da burattini in bambini) a una pesante carcassa, l’uomo ha qualche speranza.

I libri di Trevi passano un po’ troppo inosservati, e onestamente non se ne capisce il motivo. Sono fra i più alti della nostra letteratura e, accanto alla narrazione in sé, non mancano di riflettere sulla letteratura stessa, come nel capolavoro Qualcosa di scritto. Quando, in uno dei suoi passaggi centrali, Il popolo di legno ci invita a riflettere su un vecchio tema, uno di quei temi aboliti dall’imperium dei medietà (media + mediocrità), abbiamo modo di rinfrescare la memoria: scrittori di un’altra categoria (che il Topo chiama “Penne dello spirito”), esistono. Badate bene, non si tratta di qualità scrittoria, abilità tecniche e simili: le “Penne dello spirito” sono strumento di qualcosa di più grande, qualcosa che si deve ineluttabilmente compiere, una storia che deve prendere forma in quel momento. Un esempio? Collodi, che quella storia la compose per una questione di debiti.

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