Home Inchiostro - Recensioni di libri indipendenti e non. Don’t Look Back in Anger – Suede

Don’t Look Back in Anger – Suede

by senzaudio

Un po’ come quando il gesso stride sulla lavagna. Questa era la voce di Brett Anderson cantante e leader degli Suede (The London Suede in America, per problemi di omonimia). Una voce che si fondeva in perfetta armonia con i testi del gruppo.
In piena ondata Britpop, che il gruppo esalta e cavalca, gli Suede nascono nell’89 e si sciolgono nel 2003, per poi tornare in tempi recenti (ma a questo ci arriveremo).
Si fanno notare da subito, forse non per la musica, ma per l’aspetto androgino e ambiguo del frontman. Pure a quei tempi lì, il non essere facilmente inquadrabile, portava dei vantaggi enormi. La gente poteva parlare e sparlare di te e tu diventavi un personaggio riconoscibile.
Al quadro si aggiunge la chitarra. Bernard Butler riversa sulle canzoni degli Suede quintalate di aguzzi vetri rotti e stridori di freni. L’accoppiata voce e chitarra è una fusione, un matrimonio esemplare. L’una senza l’altra non darebbe nemmeno un quarto di ciò che vale. Ed invece assieme riescono a rendere in musica la vita suburbana della Londra dell’inizio degli anni 90, la fragilità emotiva, l’impressione di essere invisibili agli occhi degli “adulti”.

Coming up, il loro terzo album, primo senza Butler alla chitarra ha melodie più ariose, meno cupe rispetto ai precedenti lavori, che rendono i singoli più accessibili alle masse e che, in qualche modo per i non anglofoni,nascondono la profondità dei testi. L’album, infatti, si scaglia contro i valori dell’edonismo che regnava incontrastato a metà degli anni 90. Coming up esce nel 96 e, nonostante la citata assenza di Butler, ottiene un enorme successo di pubblico. Gli Suede si consacrano esponenti di punta del Britpop.

L’album successivo, “Head music” riprende in parte i temi e soprattutto la musicalità dell’album precedente ma non riesce a bissarne il successo commerciale perché, probabilmente, più che un lavoro a se stante assomiglia molto ad una parte B di Coming up. Una sorta di continuazione che viene soffocata dall’enorme successo del suo predecessore.
A new morning, del 2002 decreta il declino della band. L’album esce nel momento in cui l’interesse per gli Suede è già ormai storia passata. Forse l’edonismo sfrenato si è impadronito della scena, forse l’ambiguità non è più sufficiente ad attrarre pubblico o forse la forza del gruppo viene lentamente ad esaurirsi. L’album è un flop, il gruppo si scioglie.

A questo punto della storia, Brett si lancia in un nuovo progetto. Da vita ai “The Tears” assieme al vecchio amico Butler. Comunque la si voglia interpretare, la cosa lascia una traccia molto flebile. La band pubblica “Here come the Tears” che ricordo a malincuore come una noiosa accozzaglia di suoni e parole. Si sciolgono dopo un anno.

Brett intraprende la carriera solista tuffandosi in melodie più lente e riflessive in cui appoggia la propria voce che non riesco a definire meglio di: disperata.
Ciò che si prova ad ascoltare questi album, aldilà dei testi, è che essi siano un canto nostalgico, che siano la traccia di una nostalgia di un periodo in cui il cantante, pur scagliandosi contro gli usi e costumi della società, poteva ancora sperare nel cambiamento. Ora quel cambiamento non più all’orizzonte.
Ed infine, succede quello che succede molto spesso ai giorni nostri. Prima un gruppo si separa e poi si riunisce. Gli Suede fanno una serie di concerti, Brett pubblica un altro album solista ma ci tiene a dire al mondo che poi si chiuderà in studio con gli altri ragazzi perché gli Suede sono tornati. Per quanto, mi chiedo io? Sarà una toccata e fuga? Ovviamente il “quanto dureranno” dipenderà anche dal successo della loro iniziativa. Ed eccolo che arriva “Bloodsports”. Il pubblico lo accoglie favorevolmente, la critica sembra favorevole, Metacritic gli piazza un 80 su 100 come voto medio delle recensioni raccolte online. Un buon risultato per quella che è, signori miei, una macchina del tempo. L’ultimo album degli Suede, che loro definiscono a metà tra “Dog Man Star” e “Coming up”, ma che io vedo come un prolungamento di quest’ultimo, è in grado di farti fare un salto indietro nel tempo di quasi venti anni. Le sonorità, i testi, l’angoscia e la voce sofferente di Brett sono rimaste le stesse.
E’ un piacere riascoltarli, sperare che riescano a toccare le stesse corde di quando eri più giovane, sperare che riescano a farlo anche con le nuove generazioni, pure se questi sono dei vecchietti e pure se non escono da un talent show.

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