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Come le stelle fisse – Raffaella D’Elia

by senzaudio

La vulgata vuole che i musicanti siano i poeti della nostra epoca, la loro produzione ipercampionata e ipertatuata il corrispettivo contemporaneo della poesia, come se fare acrobazie con le rime e condurre vite trasgressive (???) bastasse a collocarli nei pressi di Umberto Saba. L’elemento più evidente di tutto questo “poetare” è il suo essere fine a se stesso. Lo sperpero di arte retorica (che porta dritti dritti all’inflazione) è roba secolare, se pensiamo che già a metà dell’800 i poeti dovettero vedersela con la svalutazione prodotta dai libretti d’opera e dai poeti della domenica. Ecco allora che alcune figure retoriche, quelle più adatte alla nostra storditissima epoca, sono al centro di un vero e proprio abuso, e la profezia di Spitzer (l’enumerazione caotica come tropo della modernità) si realizza in ogni brano repperistico che si rispetti, dove l’horror vacui 2.0 viene fronteggiato dal procedimento dell’accumulazione. E che dire dell’abuso di anafora, praticata perfino da primi ministri in cerca di applausi da arena? Alla fine anche gli scrittori vanno dietro a questo ammiccamento e la letteratura si immiserisce perdendo la sua peculiare vocazione al silenzio. Per fortuna c’è qualcuno che scrive al di fuori del tempo, e leggere certi libri è come trovare l’oracolo di Delfi di buon umore, una mattina che si parte per la trincea. E’ il caso di Raffaella D’Elia col suo Come le stelle fisse, che in apparenza è un’opera di narrativa ma, avrete intuito, sotto sotto è poesia (per intenderci, potete vedere che cos’è l’enumerazione non fine a se stessa), poesia resa possibile da un grande lavoro interiore finalizzato al mantenimento di un alto grado di purezza: a dispetto degli ipertatuati da summer festival, Raffaella D’Elia mantiene intatto il candore della propria pelle fino ad adattarla a telo, un telo su cui vengono proiettate immagini, un po’ come accadeva in un bellissimo documentario di Gianni Celati dedicato al fotografo Ghirri (le foto dell’artista proiettate su candidi lenzuoli mossi dal vento), di modo che il lettore intravede le cose riflesse sul bianco del suo essere. Come le stelle fisse racconta (un raccontare di un’intensità tutta visiva) della difficoltà di adattarsi alla realtà, una realtà dove psiche e chimica faticano ad amalgamarsi, come se lo sguardo umano ricomponesse in una confusa camera oscura tutto ciò che si impiglia nella retina:

e il materiale organico esplode mischiandosi a quello inorganico, le particelle dei fogli in alluminio si sciolgono per ricomporsi e fissarsi in strutture di nichel e vento, composti chimici e residuati psichici

Una realtà, quella sentita e raccontata dalla D’Elia, dove l’alfabeto dell’affanno e della privazione trovano l’unica forma di narrazione possibile in un prosimetro di formazione che fa pensare alla tradizione romanza e a certo cinema muto, la prima per la freschezza della parola, il secondo per la libertà della fabulazione:

pezzetti di alfabeto inanellati nell’incastro perfetto di una linea di dna, a trasmettere l’espressione di una supposta identità e verità, piccole porzioni di materia psichica e onirica

Carlo Emilio Gadda dava del pidocchioso all’io e probabilmente tutta la sua narrativa fu il frutto di un lungo corpo a corpo con questo pronome, il cui peso dimostrava tutta la sua difficoltà a collocarsi nel mondo in modo naturale e leggero; probabilmente tutta la letteratura di ricerca è generata da cortocircuiti simili, e quella che si legge in Come le stelle fisse è proprio letteratura di ricerca, ricerca primariamente esistenziale: l’iniziazione di un io, la formazione di una creatura umana che di umano ha fin troppo, una ragazza che accede al mondo terrestre non a colpi di spazzola o pasticche ma attraverso una lenta educazione ctonia, proserpina, e che trova in lunghe immersioni nell’arte una possibile definizione identitaria. Non ci sono inferi, in questo libro, o meglio, non sono mostrati, ma si capisce che l’io narrante vi è passato, prima di uscire a riveder le stelle. E quando esce, quando inizia ad avere a che fare con la vita, le restano addosso “le visioni strane e meravigliose che pochi mesi prima avevano sconvolto il senso della sua formazione”.
Una ragnatela a fare da rete di sicurezza, Come le stelle fisse è un filo da equilibrista, fatto di frasi lunghe e bellissime, sospeso nel vuoto fra essere e non essere, un vuoto che forse è meno vuoto di quel che sembra e che una sonnambula attraversa fra un accadimento e il suo contrario, e noi con lei, lassù, le ascisse e le coordinate continuamente aggrovigliate; e quando la voce narrante riesce a superare lo smarrimento e la vocazione alla sparizione attraverso un completo sregolamento dei sensi (per mezzo dell’arte, nelle sue espressioni pittoriche, musicali, letterarie e architettoniche) assistiamo al sortilegio di una mente capace di trasformare un’intera città in sogno e un’intera vita in “concentrato indivisibile di natura, materia, e poesia, geometria evolutiva”.
Salvando la scrittura, l’essere umano salva se stesso e sfugge a tutto il suo vuoto: trovatosi col piano cartesiano sconvolto, l’uomo contemporaneo si incammina verso la fineasestessizzazione dell’esistente, e quando si avvede che anche il linguaggio rischia di fare la stessa asfittica fine, non gli rimane che puntare tutto su di esso: se andrà bene, se come in Come le stelle fisse riuscirà a tratteggiare un personalissimo reticolato siderale, la scrittura si rigenererà e porterà in salvo il suo albatro: allora non ci sarà vento che lo tocchi e avrà in se stesso la sua legge e il suo cammino.

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