Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa per ricordare Gabriel Garcia Marquez e all’inizio ho rifiutato. Non credevo che sarei riuscito a rimanere distaccato, non credevo che sarei riuscito a non sembrare patetico. Soprattutto, non volevo finire nella mischia, tra tutti quelli che ora ne scrivono attirati dal premio di facili ingressi nel loro sito.
Poi ho pensato che non me ne frega niente se l’articolo viene letto, mi interessa scriverlo. Per me.

Cosa posso dire di Gabriel Garcia Marquez che non sia stato detto? Nulla, è tutto stato già detto e scritto. Lui stesso ci ha messo su un carico da novanta con la sua autobiografia “Vivere per raccontarla” eppure qualcosa può essere detto, un piccolo pertugio dove infilarmi lo posso trovare anche io.
Per i primi anni 24 anni della mia vita non ho letto “Cento anni di solitudine” perché mi ero fatto l’idea, Dio solo sa come, che parlasse di un vecchio rincoglionito che se ne stava da solo a vivere in un faro per cento anni. Immaginavo che quattrocento pagine di disquisizioni filosofiche del vecchietto mi avrebbero sfinito. Poi conobbi un colombiano che mi ordinò di leggerlo. Non si può dire di no ad un colombiano, soprattutto se è ubriaco e vi sta puntando contro il coltello con cui ha tagliato il lime.
Fu amore a prima vista e non fu nemmeno il libro che amai di più.
Marquez divenne un compagno che mi prese per mano durante un periodo turbolento della mia vita e i suoi libri qualcosa a cui guardare ogni qual volta sentivo di dover staccare dal mondo reale. Io a Macondo c’ho vissuto e a parte le formiche e l’umidità non si stava male.

E ora immagino la scena. Le librerie questa mattina in tutta fretta si stanno rifacendo il trucco, mettendo in vetrina tutti i titoli di Marquez che hanno in magazzino. I bookstore online stanno definendo l’offerta del giorno per venire incontro all’esigenza dei lettori di prendersi un pezzo di Marquez prima che il cadavere si freddi. Da domani anche nei canali meno ufficiali gireranno le ultime versioni degli ebook del colombiano. Nei giornali si sprecano gli articoli, i necrologi, le testimonianza. Fioccano le interviste a chi l’ha conosciuto, a chi l’ha amato, a chi l’ha tenuto vicino sul letto di morte. Ma non me ne frega niente, è il business baby, tra le altre cose è il business in un settore che è perennemente in crisi per cui a ben guardare se Marquez, con la sua morte, riesce a dare una boccata d’aria fresca all’editoria chi sono io per oppormi.

Pausa.

Gabriel Garcia Marquez e Fidel Castro

Iniziano le critiche all’uomo. A colui che avrebbe potuto fare o non fare qualcosa, a colui che era politicamente dubbio e che insomma, a guardar bene non era proprio sto gran scrittore, che lo diceva pure lui che con la grammatica era un asino, che quel nobel nell’82 glielo avranno dato perché non c’erano altri candidati degni. Arrivano quelli che per sentirsi grandi devono sminuire gli altri. Che per sentirsi diversi devono viaggiare fuori del gruppo e pure in contromano.

E allora…come si fa a celebrare la vita di uno scrittore senza cadere in banalità? Come possiamo essere sinceri con noi stessi in un momento in cui la sincerità è merce rara e poco apprezzata? Non sono uno studioso di letteratura latinoamericana, non conosco a menadito temi, strutture, vezzi linguistici di questo o quello scrittore. Ma ho vissuto nei mondi creati da Gabriel Garcia Marquez e li ho amati. Ho cercato di prendere e tenere per me quanto più riuscissi dai suoi capolavori. Quindi qualcosa dentro di me risuona flebilmente perché è consapevole che Marquez se n’è andato.
Non posso dire che mi mancherà l’uomo, non mi permetto di dirlo perché l’uomo non lo conoscevo. Posso dire che mi mancherà la speranza di poter leggere un altro suo libro che rivaleggi, in quanto a bellezza, con alcuni dei suoi predecessori.
Oggi, sento una vena di malinconia, quella malinconia che si dedica agli anni della propria vita che ormai sono passati.
Marquez faceva parte di quel passato, un altro capitolo è chiuso per sempre.

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