Ben Marcus – L’alfabeto di fuoco

by Gianluigi Bodi
Ben Marcus

Qualche mese fa è uscito per Black Coffee il libro di Ben Marcus “L’alfabeto di fuoco“. Qualche mese fa, nell’editoria, significa un’altra era geologica. Si rincorre spesso l’ultima uscita, con lo sguardo iniettato di sangue e la bava alla bocca. Si corre dietro all’ultima novità, si fa un refresh continuo sulle pagine degli editori per controllare cosa sia uscito in mattinata, poi per scrupolo si torna anche la sera. Il mantra è “Nuovo è sempre meglio”, come direbbe Barney Stinson. Però non è così. Noi che scriviamo di libri ci buttiamo sull’ultimo libro del nostro editore preferito come i piranha si buttano su un quarto di bue e l’effetto, mi duole dirlo, sembra proprio quello di una carcassa spolpata in fretta.

Anche io faccio parte di questo gruppo, ma sempre più spesso mi capita di lasciar decantare i libri, come il buon vino. Quando mi arrivano li apro, poi ne assaggio un paio di pagine, mi faccio un’idea sullo stile e sul tono del libro e poi mi dico: sì, adesso va bene; oppure no, non è il momento giusto. E quando arriva il momento giusto mi sembra di saperlo, di intuirlo.

Di recente ho preso in mano “L’alfabeto di fuoco” di Ben Marcus e ho avuto la riprova che attendere il momento propizio è un’ottima strategia. Il libro di Marcus racconta un mondo in cui il linguaggio è diventato una malattia. Sono i bambini i portatori sani di questo contagio. Gli adulti ne fanno le spese. Cosa può succedere ad un mondo come il nostro quando anche comunicare diventa un problema?
Messa così potrebbe sembrare di avere tra le mani una distopia o un libro dalle forti connotazioni fantascientifiche. Eppure, mano a mano che la lettura procede il lettore si dovrebbe rendere conto che il mondo che descrive Ben Marcus, con le dovute forzature ed esagerazioni, è già qui. Già ora viviamo in un luogo fisico in cui il linguaggio ha delle conseguenze. Mi viene da dire che le conseguenze del linguaggio stanno diventato sempre più nefaste anche a causa dell’uso smodato e sconsiderato dei social network. Il linguaggio, secondo il mio modesto parere, ha già delle conseguenze fisiche. Ferisce, porta al suicidio, deprime, consuma. Ben Marcus è un maestro a descrivere gli effetti tangibili dell’epidemia. Il suo è un libro da leggere a piccoli sorsi, ancora, proprio come il vino.

Anche perché, è qui entra in gioco un’altra componente davvero notevole, lo stile con cui Marcus ha scritto “L’alfabeto di fuoco” è esso stesso un protagonista del libro.
Leggere questo libro non è una passeggiata. Lo stile è complesso, articolato a tratti sfiora il barocco. È avvolgente, ma se non stai attento ti stritola e ti fa mancare l’aria. È il modo ideale per raccontare il dolore, la perdita e la solitudine che si crea dal momento in cui ascoltare diventa impossibile ed è in un certo senso quello che fa il linguaggio usato da Marcus in questo libro dal momento che sembra di uscire dalle pagine. Leggerlo provoca delle sensazioni fisiche. Capirete che se state leggendo un libro in cui l’uso del linguaggio ha effetti nefasti sul vostro fisico, sentire che il testo che state leggendo vi si avvinghia addosso ha degli effetti interessanti sulla psiche del lettore.

La traduzione, che presumo non essere stata facile vista la ricchezza del testo, è di Gioia Guerzoni. Traduttrice in cui, da qualche anno a questa parte, tendo a leggere spesso con grande soddisfazione. So che alcuni dei titoli che traduce li propone direttamente lei agli editori per cui direi che ha buoni gusti.

Per concludere, leggete questo libro e tornate a dirmi cosa ne pensate.


Ben Marcus è autore di due romanzi, L’alfabeto di fuoco e Notable American Women, e due raccolte di racconti, L’età del fil di ferro e dello spago (Alet, 2006) e Leaving the Sea (di prossima pubblicazione per Black Coffee). I suoi scritti sono apparsi su Harper’s, The New Yorker, The Paris Review, Electric Literature, Granta, The Believer, McSweeney’s e Tin House. Ben Marcus ha inoltre curato l’antologia New American Stories per la celebre rivista Granta, si è aggiudicato la Guggenheim Fellowship (2013) e tre Pushcart Prize. Dal 2000 insegna alla Columbia University School of the Arts. Vive a New York.

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