Siamo così ossessionati dalla realtà che non ci basta quella che ci circonda ma abbiamo bisogno di osservare passivamente quella degli altri. I reality show sono la realizzazione del peggior incubo di George Orwell, che ha tentato nel libro 1984 di farci rendere conto che potrebbe arrivare un Grande Fratello a osservare qualsiasi nostro movimento e influire attivamente sulle nostre decisioni. Al posto di cogliere il suggerimento e correre ai ripari, cercando di non far realizzare la sua spaventosa profezia, abbiamo deciso di diventarne parte attiva. Il nostro disperato bisogno di condivisione, i nostri selfie, annullano la privacy smerciando al mondo intero la nostra vita in quasi tutte le sue sfumature. E non sazi, ci nutriamo di finte esistenze affamati di crudeltà e vediamo, osservando con occhio critico, lo schermo della televisione o del nostro computer che sono abitati da persone che si umiliano per apparire, per farsi conoscere, per non scomparire nel dimenticatoio.
Dora. Un caso clinico (Indiana editore) libro di Lidia Yuknavitch inizia, non casualmente, con una prefazione di Chuck Palahniuk che in Cavie aveva già analizzato, seppur in maniera differente, il problema della mercificazione televisiva delle vite umane. La protagonista è Dora, ragazza diciassettenne di Seattle, il cui nome deriva dal caso clinico rimasto irrisolto da Freud. La sua estrema sensibilità, lo smarrimento e la necessità fisiologica di amore renderanno la protagonista vittima dell’oscuro piano del dottor Sig (Sigmund?) di trasformarla nella stella di uno scadente e pessimo show televisivo dove il fulcro sono i casi clinici più disperati. E saranno proprio i suoi genitori a spedirla nelle mani del potenziale carnefice. Inizia così un duello fisico e psicologico tra lo psicoterapeuta e Dora, in cui si contrappone l’avidità e la bassezza di un mondo, quello degli adulti, costruito sul vuoto cosmico della ricerca ossessiva di potere e denaro a scapito della dignità umana, e quello degli adolescenti che cercano di sopravvivere aggrappati alle loro passioni e alla loro paura di diventare meccanismi di un sistema che li spaventa. I personaggi che ruotano intorno al satellite Dora sono eccentrici ma sono la sua vera famiglia, poiché quella vera è costituita da persone nulle, che non hanno paura di sacrificarla. Lidia Yuknavitch utilizza uno stile immediatamente riconoscibile, frasi brevi e taglienti e sa oscillare con maestria tra la comicità surreale e la critica sociale senza mai perdere il ritmo della narrazione. L’autrice ci regala un libro originale e una protagonista che nella sua eccentricità ha solo un fottuto e disperato bisogno d’amore.
La traduzione, ottima, è affidata a Costanza Prinetti.
Lidia Yuknavitch ha pubblicato tre volumi di racconti e il memoir The Chronology of Water (2011). Insegna scrittura creativa, cinema e women’s studies in Oregon.