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Spoon river – la collina della riscossa

by senzaudio

A qualcuno, leggendo il titolo, forse sarà venuto in mente il colonnello Kilgore di “Apocalypse  now”. Ma se la collina al napalm di quel capolavoro profuma di vittoria, quella di cui voglio parlare narra di normalità e rivalsa, di lotta e perdono, di alterità e identità. Racconta un luogo che non esiste (ma che l’autore conosce in prima persona) e che fa da cimitero per una carrellata di personaggi normalmente formidabili che, da morti, ci ammoniscono per l’eternità. Proprio perché morti, i protagonisti si raccontano con la massima sincerità. Dismettono il vestito buono della società puritana e indossano quello ruspante e sincero del proprio lutto. Ho volutamente usato concetti in apparente contraddizione e lo farò altre volte, perché la contraddizione è la lente di ingrandimento per comprendere appieno quest’opera Giusto due parole per inquadrare l’opera in una piccola cornice: – Chi: Edgar Lee Masters è il prolifico autore di un solo libro. Ancora una apparente contraddizione; Masters ha scritto e pubblicato di tutto (versi, teatro, racconti), ma tutta la sua produzione è fagocitata da Spoonriver. Gli scritti precedenti sono una specie di ricerca preparatoria; gli scritti successivi una ricerca della medesima ispirazione, ahimè mai più incontrata; – Come: Il libro è una raccolta di epitaffi funebri. Scritte sulle tombe di “immaginari” abitanti di una “immaginaria” cittadina. Le virgolette sono doverose, visti i costanti e fortissimi riferimenti autobiografici: l’autore ha abitato nei pressi del fiume Spoon e tra i defunti ci sono anche alcuni suoi cari; – Dove: Lewistown in Pennsylvania è uno dei posti dove l’autore ha abitato (è stato un bambino giramondo, anche al di là della propria volontà) e forse il luogo che più ha contribuito a costruirne il talento; è un luogo il cui nome dirà poco a quasi tutti (a me non dice proprio niente), ma evidentemente è importante nella formazione dell’autore. – Quando: il libro scritto nel 1914, esce l’anno dopo. Ancora una volta con la guerra a fare da sfondo. E come in Niebla (di cui ho avuto il coraggio di parlare qualche settimana fa), la guerra condiziona profondamente non solo il tema, ma anche la forma. Il legame tra le lapidi e la guerra è perfino banale.

Ma cos’è L’Antologia di Spoonriver?

Prima un’immagine e poi una descrizione. L’immagine è quella della copertina di una delle edizioni italiane: il dipinto “American Gothic” di Grant Wood. Ritrae un uomo col forcone e una donna dall’espressione intensa e sobria: probabilmente è una raffigurazione dei ruoli dell’uomo e della donna nella società americana rurale del tempo (1930). A me è servito come punto di partenza per capire il contesto in cui muoversi e il radicale stravolgimento che alcuni abitanti di spoonriver compiranno dei valori e dei ruoli impressi in quell’immagine. Poi la descrizione. Nella forma si tratta di una raccolta di versi che non mi sento di definire “poesie”; mi piace pensare a una specie di giusto mezzo tra la prosa e la poesia. È una poesia raccontata o un racconto poetico. Ho usato il singolare perché, se è vero che è un poderoso ritratto di oltre 200 abitanti del paese, secondo me va considerato come un unicum. Racconta in modo breve e bruciante i caratteri di 240 persone. Ma quei caratteri, quelle avventure, quegli accessi di ira, di ipocrisia, di generosità sono propri di ciascuno di noi; le sofferenze, le risate di gioia e le urla di disperazione le occhiate di vacua indifferenza di qualche personaggio, sono le nostre in alcuni frangenti della vita. Insomma, si racconta un microcosmo costellato di rancore e perdono, di disfatte e rivincite, di abbracci e spintoni: i personaggi sono granelli della medesima sabbia, sono vertebre della stessa colonna, sono pendenze della stessa collina, sono semi dello stesso frutto che solo una volta trapassati sono veramente maturi. Ed ecco un altro richiamo alla dialettica dell’Antologia. La morte dà la massima libertà ai vari personaggi, li cristallizza nel momento della loro rivincita personale. Rivincita che può essere semplicemente una spiegazione o anche una vera e propria risata liberatoria e sguaiata in faccia al (mal)costume di paese. Non posso riassumere una raccolta di poesie; quello che spero di riuscire a fare è mostrare come il tema della dialettica (a me particolarmente caro), trovi in questo scritto un modo di manifestarsi chiaro, potente e – credo – unico. Per farlo, tenterò di commenterò un solo epitaffio, raccomandando poi chi leggerà questo intervento di leggere assolutamente l’Antologia di Spoonriver, libro senz’altro noto ma non conosciuto a sufficienza. Avrei scelto la tomba di

Dorcas Gustine

in vita ha peccato di sincerità e per questo è stato duramente osteggiato da molto compaesani. E lo dice apertamente: non era amato perché non nascondeva nulla di quello che pensava, affrontava a viso aperto chi lo biasimava. Non come “quel ragazzo di Sparta che nascose il lupo sotto al mantello, lasciandosi divorare senza un lamento”. No. Dorcas si scrolla il lupo di dosso e lo combatte apertamente, per strada tra polvere e grida di dolore, perché “la lingua può anche essere un membro ribelle, ma il silenzio avvelena l’anima”. Il lupo è l’ipocrisia, la falsità, la finzione benpensante che va spazzata via se si vuole la conoscenza autentica di sè. In questo caso la dialettica è il riconoscersi attraverso la lotta, il (ri)conoscere se stessi nello scontro anche fisico col totalmente altro da sé. L’individuo emerge nella ribellione, trionfa e si compie solo al termine di questo passaggio. Che poi la cosa disturbi e crei fastidio ed esclusione negli altri, poco importa a Dorcas, anzi: “Biasimatemi se volete – io sono contento”.

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