Alla base dell’edizione italiana pubblicata da Fazi di Leben, opera ultima del tedesco David Wagner, c’è una felicissima intuizione nella traduzione da parte di Fabio Lucaferri che traduce per l’appunto il termine teutonico che titola il libro con Il corpo della vita, cogliendo tutta la centralità del senso nel rapporto tra corpo e vita. Leben significa semplicemente vita, ma in questo caso senza articolo determinativo diviene voce del verbo «vivere» coniugato all’infinito, proprio per rendere tale idea di prosecutio, di continuità, di cosa o situazione che ha in sé la possibilità di perpetuarsi, di proseguire indefinitamente il proprio pro-trarsi.
Il corpo della vita è innanzitutto un corpus di scrittura, come quando con corpus si allude a un’opus letterario, un qualcosa dunque fatto innanzitutto di scrittura, e più precisamente di narrazione. Il libro è il racconto del percorso della vita di un corpo nella sua endiadica essenza di corpo/vita attraverso una serie di flash, frammenti, annotazioni in forma diaristica, di un cammino fisico e mentale come testimonianza di un iter di mutamento. Vivere dunque come diegesi del corpo, modificazioni dei suoi stati d’essere in funzione di determinati contesti e situazioni che riguardano i cambiamenti che tale corpo agisce/subisce a seconda della dimensione nella quale viene a trovarsi. Ciò che in tedesco, di nuovo, viene definito Erlebnis (dalla radice «leb», «leben»). Una dimensione spaziotemporalizzata a partire da un’esistenza, da un pensiero che prende corpo attraverso il suo pensare e il suo dire, come locazione d’essere, come evento nel quale la psiche diviene corpo in quanto estensione e in qualità di centro delle sensazioni, “centralina” sinaptica dei sensi, canale di decodificazione di informazioni esterne che divengono via via materia di linguaggio. Corpo inteso dunque come organon e non come partes extra partes, elaboratore e rielaboratore di strategie linguistiche che intervengono inevitabilmente a partire da eventi di natura fenomenologica. Da Merleau-Ponty (Fenomenologia della percezione) a Jean-Luc Nancy (Corpus, non a caso), e ritorno.
Scrittura come diaristica del corpo, come storia e vita del corpo, rendicontazione di una metamorfosi diuturna, taccuino di viaggio del transforme, e-scrizione del corpo e autobiografia come (tra)scrittura del sé attraverso il proprio corpo, storia di una vita “emotiva” incessante, dai primi vagiti alla lallazione, dai tentativi di comprensione ed espressione alla comunicazione di una raggiunta consapevolezza di essere sé, proprio come avviene in un altro testo di un autore geniale, quel Daniel Pennac di Storia di un corpo. Autobiografia intesa allora, ricordando Valerio Magrelli e, per altri versi Jacques Derrida (squisito l’aneddoto relativo al filosofo algerino contenuto nelle pagine del libro), più come «otobiografia», come diagramma dell’esistenza disegnato seguendo una percezione auditiva di un orecchio in perenne origliamento, “ascolto e trascrizione del corpo impegnato a vivere, a viversi”. Solo che a differenza dell’acribica cronologia esistenziale del Journal di Pennac, Wagner offre e si offre più “umanamente” a un racconto monologante diacronico, spezzettato, sincopato, innervato da impressioni e improvvisazioni jazzate di vita nel tempo mutante e mutato, trascritte mediante il dire che il corpo concede nei momenti di sonno, veglia, degenza, malattia.
Soprattutto la malattia, nel corso descrittivo delle fasi di un personale trapianto di fegato, seguendo la Sontag (Malattia come metafora), nel suo essere ciò che è, ovvero stato concreto dell’essere, condizione inalienabilmente appartenente all’umano, al di là di qualsivoglia sopra o sottoinvestimento semantico, metaforico fuorviante. Malattia che da una parte diviene anatomia del dolore, obbligazione di stati d’esistenza caratterizzati da precise limitazioni prima tra le quali la costrizione alla consapevolezza di uno spaziamento tra sé e l’«altro», tra sé e il mondo,il corpo dell’altro, la pluralità degli altri corpi; dall’altra riappropriazione di un diritto alla libertà di sentirsi ciò che si è, essendo quel corpo che si è senza necessità di paludamenti, senza l’obbligo di dover indossare maschere sociali per stabilire un rapporto reale e stabile tra io e mondo. Di qui la catabasi, l’internamento coatto nei luoghi e nelle strutture di ricovero e la sottomissione alla consapevolezza della reclusione in spazi altri, luoghi e tempi alt(e)r(at)i e, come nelle rielaborazioni concettuali de La montagna incantata, in dimensioni comunque reali e non zone «a-reali» nelle quali esistono in egual misura tempi, spazi e modi che interagiscono in maniera di volta in volta dif-ferente con il nostro corpo/pensiero/vita, nel ritmo scandito dai rituali quotidiani, dalle litaniache lamentazioni, nella “gara delle atrocità” dell’essere malato, nella speranza del raggiungimento di una ritrovata condizione di salute, nel credere possibile che ogni malattia, come ogni essere umano, abbia a che fare sempre e necessariamente con la morte, ma proprio per questo anche e fortemente con la vita, che non ogni malattia sia necessariamente krankheit zum tode.