Giunge tardiva quanto necessaria la traduzione italiana ad opera di Maurizia Balmelli, cui per altro si deve anche il pregevole lavoro di cura linguistica sul testo di The Book of my Lives, per i tipi di Einaudi del romanzo Amore e ostacoli di Aleksandar Hemon, opera che s’interpone tra Il progetto Lazarus del 2008 (di qualche mese precedente a Love and Obstacles) e Il libro delle mie vite. Amore e ostacoli segna nella narrativa dell’autore bosniaco di lingua inglese un passaggio alla deframmentazione del testo unico, diluito in più racconti. Una scansione che in realtà perlustra la form(ul)a letteraria della scomposizione in testi brevi ma solo per ri-ragionare su un percorso/processo ricognitivo sull’unità di senso del romanzo.
L’escamotage letterario del déplacement, della dislocazione spazio-temporale disseminata nei racconti (otto per la precisione in Amore e ostacoli, 15 in Il libro delle mie vite) scherza a distanza ravvicinata con il lettore attuando un lud(d)ico meccanismo di sabotaggio nei confronti della pretesa unità del senso. Un dispositivo che trae smaliziato godimento nello scompaginare i fogli di un diario strettamente personale dotato di una cronologia dell’intimo, per riprendere la Balmelli. L’impostazione narratologica di Hemon si configura in sostanza come una divertita disposizione sul tavolo letterario di clessidre temporali e mappe geografiche del tutto disomogenee, sagacemente imbandito con una tovaglia ricamata di spaziature, distanziamenti, attraversamenti esistenziali di (non)luoghi e (non)tempi affidati alla inventio letteraria dell’autore, capace demiurgicamente di plasmare in un amalgama perfetto materia e memoria. L’Africa assolatamente buia e conradiana (Spinelli, figura kurziana minoritaria) di Kinshasa dialoga a studiata distanza con la Chicago whitenoisica, metropoli degli incontri letterari nei nuovi centri commerciali della cultura. È proprio nel cuore di questo «differire» (la derridiana différance) centrifugo, nell’interstizialità «indecidibile» del migrante “non indifferente”, del nowhere(/nowhen) man tra ucronia e utopia che l’Hemon necessariamente autobiografico, attentando giocosamente a quell’unità di senso sopra descritta (poiché il gioco è un po’ à la Perec il suo esercizio di stile), ritrova un centro semantico topologicamente forte: Sarajevo.
Sarajevo costituisce da sempre per Hemon e la moltitudine dei suoi eteronimi, da Jozef Pronek a Lazarus Averbuch a Vladimir Brik, il suo luogo (dell’) anima. La città della fondazione psichica, dei ricordi e dell’educazione sentimentale, degli implacati dolori di una guerra vissuta, ancora una volta, attraverso sentimenti distanziati e distanzianti, nell’anodinia anestetizzante dei flussi mediatici (giornali, tv, audiovisivi), nella (im)possibilità di un ritorno e di un futuro. L’amore (l’insopprimibilità del nóstos) e gli ostacoli (l’immagine trasfigurata nel ricordo violentata dal tempo e dall’assenza), la prospettiva ondivaga di un lutto inelaborabile perché non vissuto in prima persona, le note di un vagabondaggio che riecheggiano tristi come una fuga bachiana in Sibemolle. Anarchy in the USA, la finzione letteraria che ha ricostruito un’identità mascherandone o mistificandone l’essenza deraciné.
Ecco che gli ultimi due racconti capitolo, “Commando americano” e “Le nobili verità del dolore”, appaiono decisivi al protagonista che deve ricucire il vulnus narrativo del senso, che è poi parallelamente senso esistenziale. Allora il movimento del viandante scrittore si fa escatologicamente centripeto volto a recuperare le radici di quel dolore del quale è stato espropriato. L’urgenza di riappropriazione di un dolore – che si traduce poi in un sentimento più generale di collettività rispetto a quel dolore – non provato, non misurato e sperimentato sulla propria carne, costituisce quell’ombra che lo accompagna in qualità di viandante, come la figura simbolica e spettrale del gigante Tomzack che torna a farsi costantemente “ostacolo” ne La passeggiata di Walser, pena il senso di colpa per una disperazione che di fatto non gli appartiene, e che però lo distanzia – di nuovo – e esclude da un’appartenenza etnica, di stirpe. Questo il motivo per cui compare un’altra figura simbolica chiave all’interno del romanzo (“Il direttore d’orchestra”) con la quale il protagonista/scrittore è chiamato a fare i conti: Dedo, l’anziano poeta bosniaco, l’antico cantore delle infinite nuits flamboyant di Sarajevo. Una figura inizialmente aliena, ostile, scomoda e ingombrante con la quale bisogna confrontarsi e riconciliarsi. Dedo è il suo senso di colpa causato dal non avere sensi di colpa. L’essersi fermati al di qua del tragico, il non aver visto l’orrore nel proprio volto riflesso nello specchio di una città e di un Paese dilaniati dalla guerra, genera l’esigenza di una ricostituzione d’identità che dopo le “macerie” di un esodo riparte da una doppia finzione: quella letteraria e metaletteraria nel “risarcimento” offerto dall’analogon “buon soldato -buon scrittore” e quella della simulazione fanciullesca dei teatri di guerra per le vie di Sarajevo, premonizione e precognizione dell’e-venire della vera tragedia.