4 3 2 1 di Paul Auster, recensione

by senzaudio
Paul Auster

Il titolo originario del nuovo, mastodontico, romanzo di Paul Auster – scritto in tre anni, atteso da sette – doveva essere Ferguson, cioè il cognome del protagonista quadripartito di questa opera-mondo; dopo gli scontri razziali nella cittadina di Ferguson, in Missouri, viene cambiato in 4 3 2 1, non più immediatamente esemplificativo come il precedente ma il cui significato verrà rivelato nelle ultimissime pagine dell’opera.

Passando per il capostipite sbarcato a Ellis Island, e poi per i nonni e i genitori, Auster comincia narrando la storia dei quattro Archie, tutti nati  nel New Jersey nel ‘47, ma le cui diramazioni divergono fin dalla più tenera età e vengono man mano svolte dal Narratore Onnisciente fino al tramonto dei grandiosi anni Sessanta, dove gli Archie sopravvissuti hanno poco più di vent’anni.

Infatti uno degli Archie muore quasi subito, adolescente, e il suo ricordo nel libro sarà l’avanzare dei capitoli a lui dedicati, con solo il numero e la pagina bianca. Agli altri toccano scelte, inclinazioni ed esperienze più o meno diverse, che li porteranno lungo percorsi differenti: un Archie sceglierà di non fare l’università e scapperà a Parigi, gli Archie accademici diventeranno uno giornalista, un altro scrittore, e così via. Pure la sorte che tocca ai familiari e agli amici è differente, a seconda di quale Archie si parli; l’unica costante è Amy Schneidermann, il grande amore del protagonista, che però sarà sempre incompiuto, nonostante tutto.

Il romanzo è totalmente immerso nella storia statunitense di quegli anni: vi è grande partecipazione emotiva, e fisica, al sogno della Nuova Frontiera di Kennedy e cordoglio immane per il suo assassinio; vengono attraversati gli anni delle tensioni razziali e delle lotte per i diritti civili a New York e nella Columbia University, a cui Archie aderisce sempre, anche solo come testimone. Ma più di tutto è una grandiosa rassegna della cultura americana e newyorkese di quegli anni, soprattutto letteraria e cinematografica, con continui rimandi e citazioni, e l’Archie parigino costruirà il suo romanzo sui film comici di Stanlio e Ollio. Del resto lo stesso Auster ha esperienze come produttore e regista, basti pensare a Smoke e Blue in the Face.

Auster nega che questo grandioso romanzo sia un’autobiografia, eppure gli elementi che lo accomunano ad Archie sono tantissimi, quasi innumerevoli, e leggerne il profilo Wikipedia dopo aver terminato la lettura di 4 3 2 1 non fa che rinsaldare la convinzione, già forte durante la lettura, soprattutto dopo il capitolo finale. Quindi non credo sia errato pensare che questa opera sia una sorta di esperimento meta-letterario e meta-biografico dello stesso Auster: prendere gli elementi cardine della sua vita e declinarli attraverso una serie di sliding doors, per poter indagare il valore delle scelte che vengono fatte. Questo può essere pensato come il senso finale di questo romanzo: l’esperienza. Cercare cioè di capire, dando per assunto ci sia un nucleo di base già costituito, dove quello che ci succede modella, man mano, il nostro percorso di vita: se i genitori si separano, rimangono insieme o muoiono; se il tuo grande amore adolescenziale ti corrisponde o ti rifiuta; se l’approccio è verso l’altro sesso o il tuo medesimo, e così via… Si tratta di uno dei temi cari all’autore, l’Identità e come essa viene definita. Altro elemento importante, come sempre nella poetica di Auster, è il Caso, che irrompe inaspettato cambiando in corsa le carte.

Auster porta avanti queste declinazioni giovandosi di una scrittura sempre scorrevole, che fa dimenticare presto la mole del romanzo (oltre 900 pagine), e riuscendo a governare bene i quattro diversi, ma simili, mondi che ha creato unendoli alla fine nel cerchio senza inizio e fine che governa il tutto, regalandoci così un autentico capolavoro e un protagonista, Archie Ferguson, che rimarrà nei nostri cuori anche a lettura terminata.

Traduzione di Cristiana Mennella.


Paul Auster: scrittore, sceneggiatore e regista statunitense. Dopo aver studiato alla Columbia University, nel 1970 si recò a Parigi dove lavorò come traduttore fino al ritorno a New York nel 1974.  Esordì come scrittore con poesie, racconti e articoli pubblicati sulla “New York Review of Books” e sulla “Harper’s Saturday Review”.  La sua opera più famosa, subito accolta favorevolmente dalla critica, è la Trilogia di New York (Città di vetro, 1985; Spettri, 1986; La stanza chiusa, 1987), che volge in parodia il genere della detective story. Seguirono i romanzi Il paese delle ultime cose (1988), Il palazzo della luna (1989), La musica del caso (1991, dal quale Philip Haas trasse un film nel 1993), Leviatano (1992), Mr. Vertigo (1994) e Timbuctù (1998).  Raccolte di racconti sono Il taccuino rosso (1995) ed Esperimento di verità (2001). Auster firmò, insieme a Wayne Wang, la regia di Smoke (1995) e di Blue in the Face (1995), dei quali scrisse anche la sceneggiatura; nel 1998 diresse Lulu on the Bridge, interpretato da Willem Dafoe e Harvey Keitel. Ricordiamo poi Viaggi nello scriptorium e Uomo nel buio (2008), La vita interiore di Martin Frost, Invisibile (2009), Sunset Park (2010), Diario d’inverno (2012), Notizie dall’interno (2013), Follie di Brooklyn (2014), Mr. Vertigo (2015). In Italia le sue opere sono pubblicate da Einaudi.

 

 

 

 

Commenti a questo post

Articoli simili

Leave a Comment