2004-2014

by senzaudio

Era San Valentino. Era un sabato sera. Era dieci anni fa. Marco Pantani non c’è più. Ogni volta che ci penso, le lacrime mi riempiono gli occhi. Lui è stato uno dei miei idoli. Mi ha fatto godere come pochi, mi ha fatto sognare. Il ciclismo a me piaceva: seguivo il Giro, il Tour, passavo quei pomeriggi tardo primaverili ed estivi davanti alla tv, per poi andare in giro in bici a esaltarsi per un cavalcavia superato con facilità.

C’erano i Bugno e i Chiappucci, poi è arrivato lui: un giovane pelato che vola sulle montagne. Lo stile era unico: mani sul manubrio, continui scatti, solo per pochi secondi seduto sulla sella. E’ amore a priva vista, e come ogni amore regala gioie e sofferenze. Fino a quel maledetto giorno a Madonna di Campiglio: ematocrito alto, sospeso. Pregustavo la nuova, ennesima impresa, ma arriva la doccia gelata. Basta ascoltare le parole di Marco, diventato ormai Pirata, per capire che è finita. E lì, giornalisti diventano becchini: editoriali e articoli in cui Pantani viene etichettato come traditore. Lo affondano. Perché lui? Perché solo lui in un gruppo, come si saprà, in cui il doping è pratica diffusa? E’ Marco a sentirsi tradito. Non si rialza più. La sua vita sportiva è finita, con delle ultime perle incastonate nelle menti degli sportivi, è in un tunnel. Non ci esce più.

A dieci anni dalla sua morte, io il ciclismo non lo seguo più. E’ finito con Pantani. La sua parlata romagnola, il sorriso, la sensibilità restano sempre. Così come la sua bandana; quando se la toglieva, era il segnale: il Pirata attacca. Non ce l’hai fatta, Marco. La vita è stronza, gli uomini di più, e tu ne hai trovati tanti sulla tua strada.

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