“Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia”. Poche parole, dettate dal delirio, dalla mancanza di ossigeno, dalle ore che stanno per terminare. Queste sono tra le ultime parole pronunciate da Alfredo Rampi.
Non lo nascondo. Io che sono classe ’75 porto dentro di me la storia del piccolo Alfredo Rampi, poi diventato Alfredino. Io ho nella testa le immagini che passavano al TG che, ogni mezzogiorno e sera, mio nonno mi costringeva a guardare. Anni fa lessi Dies Irae di Giuseppe Genna perché sapevo che ne parlava e oggi ho letto “Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia” per lo stesso identico motivo. La storia di Alfredo Rampi ha prodotto in me un rottura così forte che, non mi vergogno a dirlo, ho anche fabbricato un falso ricordo. Nel ricordo il bambino era nel suo salotto, seduto su una sedia, aveva sete e sua madre gli portava dell’acqua. Era magro, la canottiera stracciata e sporca, come sporca era la pelle e le unghie con cui aveva provato a scavarsi una via d’uscita. Ma era vivo, era uscito dal pozzo artesiano, ce l’aveva fatta. Ce l’avevamo fatta.
Avevo il timore che la storia che Enrico Macioci aveva deciso di raccontare cozzasse con la mia, che non rispettasse la mia partecipazione emotiva a quella che doveva essere solo una tragedia personale e che invece si è trasformata nella prima tragedia televisiva. Per mia fortuna Macioci è bravo.
Macioci prende la storia di Alfredo Rampi e non la usa come ariete per scardinare le difese, la rende un personaggio secondario della narrazione. La tragedia e l’esposizione mediatica che ne è conseguita servono qui da faro che illumina la vicenda di Francesco e Christian, due bambini della stessa età di Alfredino. Un pomeriggio, quando è arrivata l’ora di smettere di giocare, Christian saluta l’amico e si dirige verso casa. Poco dopo Francesco si vede arrivare in salotto il padre di Christian il quale gli chiede quasi in lacrime dove sia il figlio. Christian non è tornato a casa, è sparito. Ecco quindi che la vicenda di Alfredino si intreccia con quella di Christian, le loro storie diventano, per Francesco, una storia unica e sembra che gli esiti di una debbano influenzare anche quella dell’altra. Francesco si trova, per la prima volta, a partecipare al mondo degli adulti.
L’estate che tutti abbiamo avuto, quella che ci fa passare dall’infanzia a uno stato in cui siamo consapevoli del fatto che le persone che amiamo possono sparire da un momento all’altro, per Francesco arriva presto. Ce lo racconta lui, ormai adulto, quando gli eventi di quell’estate sono già passati. Ci racconta del saldo legame che ha con Christian, di sensazioni negative che non riesce del tutto a cogliere e che riguardano un vicino di casa, del rapporto già deteriorato tra i genitori e poi ci racconta di come quell’estate sia stata epocale non solo per lui, ma per una nazione intera, per il suo sviluppo psicologico.
Telecamere e giornalisti accampati sul luogo della tragedia, opinionisti pronti a raccontarci la loro verità, telecronache dettagliate di ogni sforzo messo in campo sono tutti elementi che ora troviamo terribilmente familiari e che sono arrivati a nausearci. Ecco, Macioci sembra dire che tutto è partito da lì, da quel voyerismo morboso, da quel rito collettivo che io da piccolo ho visto con i miei occhi.
“Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia” è un romanzo molto bello e delicato in cui gli elementi di finzione e quelli della realtà di cronaca si mescolano con equilibrio. Come va a finire la storia di Christian e Francesco, come è ovvio, lo dovrete scoprire da voi, ma quando arriverete alla fine scoprirete anche che, come nella migliore delle tradizioni, non è solo la meta ad avere importanza, anche il viaggio merita di essere goduto.
Ciò che posso dirvi è che mi sono davvero goduto la lettura del libro di Macioci, in un certo senso mi sono fidato dell’autore, ho capito che non avrebbe usato Alfredino per ottenere un facile risultato emotivo. Quello che invece ha fatto è stato smontare quella vicenda nei suoi singoli elementi e mostrarci come questi elementi hanno influenzato le nostre vite.
Una menzione speciale alla copertina del libro disegnata da Francesco Dezio che a me personalmente piace moltissimo.
Enrico Macioci è nato a L’Aquila nel 1975. Si è laureato prima in Giurisprudenza e poi in Lettere moderne. Ha esordito con Terremoto (Terre di mezzo, 2010), a cui sono seguiti La dissoluzione familiare (Indiana, 2012), Breve storia del talento (Mondadori, 2015), Lettera d’amore allo yeti (Mondadori, 2017), Tommaso e l’algebra del destino (SEM, 2020).